Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

sabato 31 maggio 2008

Moro, fare politica senza paura

Vi propongo l'intervento dell'amico sen. Franco Marini in occasione della commemorazione di Moro al Senato.

Con viva commozione mi associo al cordoglio espresso oggi in quest’Aula in occasione del ricordo del tragico rapimento di Aldo Moro, della barbara e crudele uccisione sua e dei cinque uomini di scorta.
Ancora non si è potuta fare piena luce sulle ragioni di quei fatti, sui mandanti, su tutti gli esecutori, sul disegno criminale che era stato ordito.
La nostra memoria civile e politica soffre di questo vuoto di piena conoscenza, anche perché molti degli autori materiali di quei fatti, pur avendo perduto la loro folle e cinica sfida allo Stato democratico, non hanno mai voluto offrire una piena e leale collaborazione.
Come ha detto il Presidente Napolitano “non devono esserci tribune”, per coloro che non accettano le regole elementari di trasparenza nella vita democratica.
Ma oggi voglio richiamare il Moro vivo, il suo pensiero, il suo agire politico. E’ ovvio che cinque minuti mi consentono solo tre per me importanti sottolineature,
La prima. / La memoria di Moro, negli anni recenti si è spesso soffermata sugli ultimi suoi discorsi, quando – non senza lucido coraggio – delineava l’evoluzione della democrazia italiana verso la dimensione di una democrazia compiuta, dove forze politiche di maggioranza e di opposizione si confrontavano e si alternavano per il governo del Paese.
Moro non temeva questa maturazione democratica, anzi la disegnava come una sfida per la Democrazia cristiana, anche per sollecitarne una iniziativa di rinnovamento all’altezza dei bisogni del Paese.

Moro, infatti, era anzitutto un democratico cristiano convinto, mai integralista, ovvero mai animato da un senso di superiorità o di demonizzazione dell’avversario politico.
Moro aveva una concezione forte e basilare del Partito, della sua funzione e della sua autonomia, nei tanti anni nei quali la Democrazia cristiana e i Governi si intrecciavano profondamente.
Parlando al Consiglio nazionale della DC nel gennaio del 1964, in occasione della nascita del primo centro-sinistra, Moro sollecitava “l’azione di un Partito che, conquistata attraverso un lungo dibattito ed una tormentata esperienza una linea politica capace di tradursi in atto, la approfondisce, l’arricchisce di contenuto, la salda con le proprie migliori tradizioni politiche, la pone in costante collegamento con l’opinione pubblica e con il corpo elettorale”.
E’ la sintesi forte del suo pensiero: un Partito che nella discussione, nell’analisi franca al suo interno, definisce la linea politica e poi si pone in costante collegamento con la società, con gli elettori, per spiegare le proprie proposte e le proprie ragioni, per sviluppare quella funzione di canale di partecipazione democratica che la Costituzione assegna ai Partiti.
Non un Partito virtuale o mediatico (quanto è attuale questo richiamo) ma una forza politica di uomini e di donne che si pone al servizio del Paese, che discute, analizza e si unisce sempre per offrire una proposta forte e incisiva per il governo e per lo sviluppo della società.
La seconda. / Proprio il rapporto costante con la società e con i suoi cambiamenti è alla radice della sua concezione del potere e della democrazia. “Ci deve pur essere una ragione, un fondamento ideale, una finalità umana per i quali ci si costituisce in potere e il potere si esercita, dice Moro nel 1969. Al di fuori di essi, al di fuori del rispetto di un criterio di moralità, il potere non è più un riferimento efficace e perde la sua credibilità, per prospettare un ordinamento sociale libero”.
“Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta - prosegue Moro- Il vorticoso succedersi di rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra, condizioni d’insufficiente dignità e d’insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze dell’intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi a un punto nodale della storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni dei cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità”.
Queste analisi senza veli – espresse senza paura e senza seminare paura - di fronte ai cambiamenti enormi che si manifestavano, fanno emergere tutta la grandezza di Moro, per il quale la politica aveva una dimensione umana e per questo doveva occuparsi dei problemi sociali delle persone, della loro crescita civile e democratica.
Questa sua visione della politica lo accompagnerà tutta la vita, fino al confronto con i suoi carcerieri, quando probabilmente scoprì che si trattava anche di giovani dissennati che volevano sovvertire lo Stato e la vita sociale. Anche prigioniero Moro tenta di capire e di dialogare. Le sue lettere sono segnate da questa coscienza umana della politica, dai rapporti con i suoi amici di partito e con la sua famiglia.
Non una visione eroica o ideologica, superiore e staccata dalla realtà, non un senso del potere chiuso, ma una profonda dedizione umana alla politica, al valore del legame personale e morale con le persone: la politica come strumento di partecipazione e di progresso per tutti gli uomini. In questo forse ritroviamo la complessità della sua ispirazione cristiana.
Per ricordare oggi Moro dobbiamo ripensare all’attualità della sua lunga lezione che per oltre 35 anni ha accompagnato la nostra crescita democratica e ha alimentato la nostra coscienza collettiva. Moro ha vissuto nel servizio al Paese ed è stato ucciso proprio perché credeva che la politica fosse una attività che doveva dipendere solo da chi la vive e dai cittadini che democraticamente vi partecipano.
La terza. / Io non ebbi dubbi sulla dolorosa necessità che lo Stato tenesse. Mi colpirono però, dopo la sua morte, considerazioni sulla sua condotta durante i 55 giorni della prigionia. Gli furono attribuite incertezze, eccessiva insistenza sui suoi compagni di partito per la trattativa, quasi un cedimento dinanzi alla pressione dei terroristi. Voglio ricordare invece – lo fa la storiografia più recente – la grande nobiltà e la lucidità del suo comportamento. L’analisi accurata delle sue lettere dimostra che restò vigile e determinato fino alla morte. Usò, con la sua intelligenza, il veicolo unico che i terroristi gli lasciavano per comunicare, le lettere, a volte non recapitate, come quella in cui parlava del dolore per la morte della sua scorta, per tenere un filo tutto suo personale con i destinatari dei suoi scritti. In sintesi, Moro non si lasciò piegare dalla violenza e dal cinismo dei suoi carcerieri, difese fino alla fine, in condizioni disperate, la sua visione della vita e della politica.
Moro fu un uomo il cui assassinio costituì una tragica, irreparabile perdita, per la politica e per la democrazia italiane.

mercoledì 28 maggio 2008

La lezione. Aula XI.


Vi segnalo l'uscita di questo libro di Raffaele Marino e della mia amica Danila Barbara dedicato alla figura di Franco Tritto. Gli incassi della vendita saranno devoluti in beneficenza.


Dalla quarta di copertina.
"Quella di Tritto è una vita interrotta: il 9 maggio 1978 la morte di Moro, suo professore e maestro, le ha dato un colpo fatale. Da allora è stata dedicata alla trasmissione di una voce, alla memoria di un modo di essere docente, politico, uomo, al ricordo di un esempio di comportamento, l'esempio di vita di Aldo Moro. La sua lezione è dunque la lezione trasmessa da un professore a un altro professore, da Aldo Moro a Franco Tritto, che l'ha tenuta viva e ne ha dimostrato l'impressionante attualità: fiducia nei giovani e dedizione a loro, rispetto per l'individuo e le sue libertà, forte moralità ma anche tolleranza e dialogo con tutte le posizioni, ascolto e collaborazione".

"Lettere dalla prigione" a cura di Miguel Gotor


Ricevo e pubblico volentieri questa recensione di Annalisa Baldassaree al bel libro curato da Miguel Gotor.

Edito da Einaudi, il libro è curato da Miguel Gotor, giovane ricercatore di Storia Moderna presso l’Università di Torino.
Proprio in questi giorni (il 9 Maggio, per la precisione) ricorre il trentennale della barbara uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, tragico epilogo di un incubo collettivo, ma prima ancora e soprattutto personale, iniziato 55 lunghi ed interminabili giorni prima.
La celebrazione di questo anniversario non sembra preannunciarsi tanto diversa dalle precedenti, se non per quanto concerne la novità rappresentata dalla notizia della possibilità, a partire dal 9 maggio 2008, per ogni soggetto interessato, di accedere a tutti i documenti relativi al caso Moro, fino a quella data coperti da Segreto di Stato.
Trent’anni sono un tempo oggettivamente lungo, eppure cinque processi e due Commissioni Parlamentari d’Inchiesta non sono serviti a chiarire i molti lati oscuri della vicenda, che pertanto rimangono purtroppo ancora tali.
Molti sono stati i fattori e gli elementi che hanno concorso a rendere particolarmente nebulosa la storia del sequestro, contribuendo di conseguenza alla moltiplicazione dei misteri e all’infittimento di una tragica trama della vicenda, per certi versi non chiara, né lineare.
Il libro risponde, secondo le intenzioni dell’autore, al proposito di fornire ai lettori un’edizione dell’epistolario di Moro, documentata dagli originali dei manoscritti e dalle fotocopie degli stessi, la quale consenta non solo di ricostruire lo snodarsi degli sviluppi del sequestro, ma anche la figura storica del protagonista, per restituire ad essa la dignità morale e l’identità negate, per recuperare l’elevatezza del suo messaggio politico e civile ed infine, soprattutto per ricostruire le parole effettivamente scritte da Moro nel corso dei 55 giorni di prigionia e durante la sua drammaticamente lucida agonia.
Gotor avverte la necessità di definire una verità storica sul caso, la quale sia finalmente credibile, nonostante molti dei protagonisti e testimoni di allora, oggi abbiano ancora interesse, per molteplici ragioni, a far passare sotto silenzio ogni tentativo di ricostruzione della vicenda.
Indifferenza e rimozione, solitudine e sgomento… Questo si coglie e si avverte dalla lettura della prima parte del libro, che è interamente dedicata alla trascrizione dell’epistolario moroteo. In totale gli scritti sono 97 e sono costituiti da lettere e messaggi rivolti ai familiari, ai vertici politici, ai collaboratori, al Santo Padre, all’allieva Maria Luisa Familiari (la quale ha funto da tramite per la consegna di alcune lettere); ma sono riportati dall’ autore anche dei brevi biglietti destinati ai parenti (la moglie Eleonora in primis) e le plurime versioni dei testamenti redatte del prigioniero e mai spedite a destinazione dai brigatisti.
L’autore precisa di avere incentrato l’attenzione su questa che è solo una parte degli ultimi scritti di Moro, evidenziando non solo l’estrema importanza, ma anche il pesante, nonché inevitabile condizionamento esercitato da essa sulle trattative, sull’evoluzione e sulla tragica fine del sequestro.
Le lettere, infatti, sono uno strumento di pregnante rilevanza, in quanto permettono di gettare luce (e di comprendere) sulla tattica usata dai brigatisti durante la detenzione di Moro, che era imperniata sulla raffinata perfidia censoria, in base alla quale sono i brigatisti che scelgono e decidono quali lettere recapitare e quali, invece, censurare per motivi di propaganda, convenienza ed opportunità politica.
Se la finalità perseguita dalle Brigate Rosse è quella di destabilizzare l’ambiente politico, spezzare il vincolo fiduciario del prigioniero col partito della DC, con le forze dell’ordine e con le istituzioni in generale e soprattutto distruggere la rispettabilità, l’onorabilità umana e politica di Moro, esasperandone il turbamento psicologico ed il senso d’abbandono, la vittima, invece, nonostante tutto, cerca e tenta con tutte le forze di resistere fino all’ultimo.
Il suo atteggiamento, nel corso di quel lungo periodo, oscilla tra l’accettazione di una sorte incomprensibilmente ingiusta, costellata da angoscia, stupore, amarezza per l’abbandono degli amici di lunga data (l’allora Ministro dell’Interno Cossiga ed il Segretario della DC Zaccagnini) ed un sentimento di rabbia, di risentimento, che emergono, con particolare evidenza nell’ultima lettera a Zaccagnini.
Moro scrive questa lettera nella convinzione di essere ad un passo dalla libertà (perché questo le BR gli fanno credere per almeno due volte durante la prigionia); i toni usati nel rivolgersi al partito nel suo complesso sono estremamente duri: il Presidente deplora la linea dura adottata da quest’ultimo, la chiusura ad ogni forma di trattativa (sebbene in realtà ben due trattative segrete fossero state avviate rispettivamente dal Vaticano e dai Socialisti di Craxi), il meschino tentativo di affermare dinanzi all’opinione pubblica l’inattendibilità delle sue parole, nonché la sua presunta incapacità d’ intendere e volere e tutto ciò lo spinge e determina a rassegnare le sue dimissioni irrevocabili dalla DC.
Moro vive il problema di usare una scrittura che risulti “muta per la maggioranza (ossia le BR sempre attente a censurare quanto di sconveniente possa risultare per i loro interessi, o quanto possa rivelare lo sporco doppio gioco ai danni del prigioniero - si pensi alla lettera recapitata a Cossiga con la promessa di mantenerla riservata, ed invece divulgata dai brigatisti, violando in tal modo la promessa fatta a Moro) ed aperta per la minoranza” (ossia i destinatari delle missive).
Gotor sottolinea in più punti del suo saggio collocato nella seconda parte del testo ed intitolato “Le possibilità dell’ uso del discorso nel cuore del terrore” come l’epistolario sia la dimostrazione e la prova delle potenzialità e delle possibilità dell’uso del discorso, inteso come tecnica di comunicazione, all’interno di un contesto tragico, anomalo e disumano, quale quello della prigionia politica; la scrittura della vittima è sospesa tra la vita e la morte, tra la speranza e la rassegnazione.
La scrittura costituisce un mezzo per resistere all’agonia, l’unico appiglio per non lasciarsi andare, per continuare a sperare, anche se a mantenere viva la speranza in Moro è innanzitutto e soprattutto la fede incrollabile in Dio.
In mezzo alle incertezze che ancora costellano il caso, emerge nitido il fatto che gli ostaggi delle BR siano due: Moro ed i suoi scritti e che entrambi subiscano un’opera raffinata di manipolazione.
Il problema di fondo, tuttavia, è rappresentato dal fatto che le carte rinvenute sono incomplete e, lacuna ancor più grave e misteriosa, gli originali non sono mai stati ritrovati.
A tal proposito, i brigatisti sono risultati evasivi e di debole memoria… ma non meno si sono rivelati tali anche gli uomini politici di spicco dell’Italia di fine anni Settanta.
Secondo la ricostruzione storica di Gotor, obiettivo del Governo è quello di depotenziare il ricatto brigatista, attraverso il tentativo di sminuire il valore politico dell’ostaggio e di neutralizzare le parole del sequestrato, attuando una controguerriglia psicologica; quest’ultima si basa sul controllo dei mezzi d’informazione, sull’affermazione di un Moro fuori di sé ed infine sul sostenere pubblicamente che egli non sia in possesso di informazioni strategiche in materia militare.
Proprio per questa strategia, durante il sequestro, le lettere non sono state credute pubblicamente.
In realtà l’autore analizza nel saggio in modo particolare le scelte compiute dalla classe dirigente di allora riguardo agli scritti rinvenuti nell’ottobre del 1978 (dattiloscritti) e nello stesso mese dell’anno 1990 (fotocopie autografe di manoscritti).
Gotor sostiene che dopo la morte di Moro si apre una seconda fase della vicenda relativa alla sorte delle sue lettere, in quanto per dodici lunghi anni i testi rinvenuti nel 1978 non sono stati ritenuti autentici, né attendibili, in quanto dattiloscritti e non sottoscritti dal prigioniero.
Quando nel 1990, durante la ristrutturazione del covo ormai dissequestrato di via Monte Nevoso, un muratore rinviene in un tramezzo una cartella contenente fotocopie di manoscritti, cessa per tutti quei politici (che in precedenza avevano negato l’autenticità delle lettere di Moro) la possibilità di continuare ad ostentare sufficiente indifferenza .
Secondo Gotor, è stato proprio a partire dal momento di questo secondo, inaspettato ritrovamento che il Governo ha cercato di recuperare gli originali delle lettere, avvalendosi della professionalità del Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Per trent’anni si è discusso del ruolo delle carte Moro e su quanto abbiano condizionato la dinamica della vicenda, su quanto riflettano e quanto siano permeate dal pensiero giuridico di Moro.
Nonostante lo stato di costrizione del loro autore, in esse sembra si ritrovi il Moro degli scritti giovanili, il Moro cattolico, il Moro sostenitore del personalismo giuridico, che impone l’affermazione del primato dell’individuo sullo Stato, del valore della vita umana “stella polare del sistema” .
Del libro è apprezzabile innanzitutto la scelta di presentare e disporre le lettere in ordine cronologico, perché in fondo per poter comprendere un fenomeno storico, sia appartenente ad un passato relativamente recente che remoto, l’unico metodo di ricerca appropriato è quello che si basa sulla ricerca ed analisi dei documenti (gli unici che possano contenere dati certi e fondati), per quanto impegnativa e noiosa essa possa risultare.
In secondo luogo è davvero condivisibile l’impianto del testo, la scelta di lasciar che siano le parole del protagonista a parlare, a raccontare pensieri, parole, riflessioni e stati d’animo.
Moro emerge in tutta la sua umanità, in tutta la sua grandezza di uomo politico, ma anche e soprattutto di UOMO, con le sua umane paure, le sue umane debolezze, i suoi umani amori, la sua umana rabbia ed il suo disperato, accorato, ma rassegnato dolore…questo sì DISUMANO, tanto quanto la spietatezza di chi ha avuto il barbaro coraggio di strapparlo alla vita in nome di un meschino sacrificio, in nome della causa di una fantomatica ed utopica RIVOLUZIONE.
Lettere della prigionia è un libro che non impone una versione su tutte le altre, non sposa teorie di complotti internazionali, che tanto potrebbero rendere avvincente il racconto, o aiutare la tiratura di un testo… si limita a riconoscere che il fenomeno delle BR è essenzialmente un fenomeno tutto italiano, che la presunta pista di un mandante internazionale non è suffragata dal sostegno di documenti storici e quindi è e rimane pura supposizione.
…È un testo che lascia al lettore la possibilità di esercitare le proprie personali riflessioni ed il senso critico sul materiale documentale che offre in abbondanza.

Annalisa Baldassarre

sabato 17 maggio 2008

A 30 anni dall'assassinio di Moro - L'editoriale de "La civiltà cattolica"

Alle 9,15 del 16 marzo 1978 le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro in via Fani e massacrarono i cinque uomini della sua scorta: Domenico Ricci e Oreste Leonardi, i due carabinieri che accompagnavano il Presidente del Consiglio Nazionale della Dc nella sua auto; Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, i tre poliziotti che occupavano l’auto di scorta. Su un totale di 93 proiettili ritrovati dagli inquirenti sul luogo del delitto ben 49 provenivano da una sola arma; e non si conosce ancora il nome del gelido assassino di carabinieri e poliziotti: è uno dei numerosi «misteri» insoluti del «caso Moro».

Il sequestro dell’on. Moro durò 55 dolorosi giorni e si concluse il 9 maggio con il ritrovamento del suo cadavere in una Renault rossa posteggiata in via Caetani, in un luogo «ideologicamente» equidistante tra la sede del Pci e quella della Dc. Moro, stando alle carte processuali, sarebbe stato tenuto prigioniero per tutti i 55 giorni a Roma, in un appartamento di via Montalcini. Ma, secondo alcuni, i luoghi di detenzione potrebbero essere stati diversi.

Pubblichiamo questo editoriale per mantenere vivo il ricordo di Aldo Moro, protagonista eminente della vicenda politica italiana del secondo dopoguerra, sempre attento ai cambiamenti che caratterizzavano la società al suo tempo, con la vigile mente protesa ad anticiparli per poterli poi governare: insomma un maestro di democrazia e un politico di alto profilo, oltre che un padre e un marito affettuoso, molto legato alla sua famiglia. Professore di Diritto penale, oltre che membro dell’Assemblea Costituente, nel 1955 diventa ministro della Giustizia; poi ministro della Pubblica Istruzione e in seguito presidente del Consiglio; dal 1969 al 1974 è ministro degli Esteri; dal 1974 al 1976 è di nuovo presidente del Consiglio. Nel 1976 viene eletto presidente del Consiglio Nazionale della Dc.

Gli anni Sessanta e Settanta appaiono oggi molto lontani, eppure il «caso Moro» va esaminato alla luce del contesto culturale, sociale e politico in cui si svolse. Così lo descriveva Moro in un ormai famoso passaggio del discorso da lui rivolto al Consiglio Nazionale del suo partito nel novembre 1968: «Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai, il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che ingiustizie, storture, zone d’ombra, condizioni di insufficiente dignità e insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze dell’intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani sentendosi a un punto nodale della storia non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova società».

Nel febbraio 1978 Moro era impegnato ad allargare la maggioranza parlamentare ai comunisti per poter affrontare con un Governo solido i gravi problemi del Paese: terrorismo, fragilità delle istituzioni, manifestatasi a partire dall’attentato di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, e così via. «Eppure — notano C. Belci e G. Bodrato (in 1978: Moro, la Dc, il terrorismo, Brescia, Morcelliana, 2006, 150 s) —, vista da taluni commentatori la linea politica di Moro e Zaccagnini [allora segretario politico della Dc] continua ad essere definita come quella del progressivo cedimento a sinistra, prima con l’apertura ai socialisti (1962-68) e poi con quella ai comunisti (1976-79), un crescendo di fatalistica rassegnazione, il cui fine sarebbe solo quello di rallentare e ritardare la “capitolazione finale”. Il “consociativismo”, cioè una combinazione opportunistica tra due partiti per diversi motivi in difficoltà anche se elettoralmente forti, che ridurrebbe la dialettica democratica a una finzione e a un gioco delle parti, è un termine usato dalla cultura e dalla storiografia della destra italiana».

Come si può immaginare, grande era la resistenza dei tanti che erano contrari a quello che, dando un senso negativo all’espressione, chiamavano «compromesso storico». Ma, nel suo ultimo discorso prima del rapimento, tenuto dinanzi all’assemblea dei parlamentari democristiani il 28 febbraio 1978, Moro è assolutamente chiaro e indica i limiti oltre i quali la proposta di maggioranza parlamentare non può andare: no al Governo di emergenza, no a una coalizione politica generale con il Partito comunista, e aggiunge: «Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a questo domani, credo si potrebbe accettare. Ma, cari amici, non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità». In sintesi, Moro proponeva un Governo monocolore democristiano sostenuto da una maggioranza parlamentare della quale facessero parte i comunisti sulla base di un chiaro accordo programmatico, nel quale, fra l’altro, veniva confermata la politica estera atlantica e l’adesione dell’Italia al Sistema monetario europeo.

Il 16 marzo doveva iniziare alla Camera il dibattito parlamentare sulla fiducia al quarto Governo Andreotti, con i comunisti nella maggioranza programmatica, ma alle 9,30 giunge la notizia del rapimento di Moro. In un improvvisato vertice a Palazzo Chigi si decide di abbreviare il dibattito parlamentare, limitandolo alle dichiarazioni di voto, per mettere il Governo in condizione di operare al più presto nella pienezza dei poteri. Intanto lo Stato si scopre del tutto impreparato ad affrontare sia il rapimento Moro sia l’ondata di attentati terroristici che continuano nei 55 giorni della prigionia dell’uomo politico pugliese «per trascinare — come affermano i terroristi — tutti i proletari alla lotta decisiva per il potere e per il comunismo».

Senza entrare nelle polemiche ancora vive tra chi sosteneva la linea della fermezza nei confronti dei brigatisti e chi invece cercava una difficilissima linea della trattativa, va detto che la Dc cercò di aprire uno spiraglio per tentare di salvare la vita di Moro senza violare la Costituzione e le leggi della Repubblica. Con un viaggio a Londra del prof. Giuseppe Lazzati e del diplomatico Roberto Gaja si riuscì a ottenere l’apertura di un canale di possibile comunicazione in una località extraterritoriale, con una linea telefonica messa a disposizione di Amnesty International nel Palazzo di San Calisto (vicino a Santa Maria in Trastevere), luogo extraterritoriale appartenente alla Santa Sede. Contemporaneamente fu avviata anche una iniziativa di mediazione da parte della Caritas Internationalis, che si disse «pronta a operare nell’ambito e con i metodi umanitari che ci sono propri» per favorire un contatto con le Brigate Rosse. Probabilmente furono attivati anche altri tentativi tesi a salvare la vita dell’on. Moro.

Infine il 22 aprile alle 15,00 scade l’ultimatum contenuto nel comunicato n. 7 delle Brigate Rosse: o la liberazione dei 13 brigatisti che venivano processati a Torino o l’uccisione di Moro. Nella mattinata viene diffuso il testo di una lettera di Papa Paolo VI agli «uomini» delle Brigate Rosse: «Vi scrivo pubblicamente profittando del margine di tempo, che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciato contro di lui. Uomo buono e onesto, che nessuno può incolpare di qualsiasi reato, o accusare di scarso senso sociale e di mancato servizio alla giustizia e alla pacifica convivenza civile. Io non ho alcun mandato nei suoi confronti, né sono legato da alcun interesse privato verso di lui. Ma lo amo come membro della famiglia umana, come amico di studi, e a titolo del tutto particolare, come fratello di fede e come figlio della Chiesa di Cristo. Ed è in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi, che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa intercessione, ma in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità… Uomini delle Brigate Rosse, lasciate a me, interprete di tanti vostri concittadini, la speranza che ancora nei vostri animi alberghi un vittorioso sentimento di umanità». Ma tutto fu inutile di fronte alla determinazione ideologica e a priori dei brigatisti, i quali ritenevano che ormai era prossima l’insurrezione nel Paese.

Nei 55 giorni del rapimento, Moro scrisse 97 messaggi tra lettere, testamenti e biglietti, ma soltanto otto furono pubblicati dalla stampa durante il sequestro (cfr Aldo Moro: Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Torino, Einaudi, 2008, 195). «È possibile sostenere — afferma Gotor — con sufficiente certezza che le lettere recapitate dai brigatisti nel corso del sequestro non furono meno di trentasei, circa un terzo di quelle effettivamente scritte dal prigioniero. Un dato di fatto che smentisce quanto sostenuto nel 1993 da Mario Moretti: “Noi abbiamo reso pubblico quasi tutto quel che [Moro] scrive, le poche volte in cui non è stato così è perché inoltrare le sue lettere è rischiosissimo».

Nella lettera indirizzata a Cossiga, allora ministro dell’Interno, colpì tutti l’affermazione di Moro che scriveva di trovarsi sotto «un dominio pieno e incontrollato». È certo, in ogni caso, che erano i brigatisti a decidere quali testi di Moro far giungere all’esterno e quali no. Lasciando agli storici il giudizio sulla piena corrispondenza del testo delle missive di Moro con il suo pensiero, ci preme riprendere un’osservazione fatta da molti, ma lasciata in una delle tante zone d’ombra del caso Moro.

Mario Moretti, uno dei fondatori delle Brigate Rosse e capo dell’organizzazione terroristica durante il rapimento Moro, fu arrestato nel 1981. Per sua stessa ammissione, è stato colui che ha materialmente eseguito l’uccisione di Aldo Moro. È anche colui che condusse l’interrogatorio di Moro durante la prigionia nel covo di via Montalcini. Condannato a sei ergastoli, dal 1994 è in libertà condizionata: durante la giornata lavora e la notte rientra in carcere a Milano. Non abbiamo dubbi sulla correttezza legale delle decisioni prese dalla magistratura, forse troppo formali, ma meno sensibili ai diritti dei familiari delle vittime a conoscere la verità o almeno la sua parte sostanziale, e comprendiamo l’atteggiamento di Moretti che non ha mai detto una parola significativa sullo svolgimento del caso Moro.

Non riusciamo a capire però come in un Paese democratico il responsabile del più pericoloso attacco allo Stato avvenuto nella sua storia, per di più condannato a sei ergastoli, possa ottenere la libertà vigilata dopo appena 13 anni di carcere, soprattutto senza aver mai rivelato nulla circa la sua attività sovversiva passata, nonostante i misteri che ancora la circondano.

venerdì 16 maggio 2008

Moro continua a dare fastidio (2)

L'editoriale di Giuliano Ferrara del 10 maggio, che di seguito vi propongo, dimostra come una certa cultura di destra reazionaria sia ancora oggi, come allora, ostile alla figura di Moro. Comune a questa impostazione, come ho segnalato anche a proposito dell'editoriale del prof. Francesco Perfetti (naturalmente "Libero" non ha pubblicato il mio intervento di puntualizzazione ...), è, da una parte, il tentativo di sminuire la figura umana ed intellettuale di Moro e di sostenere, dall'altra, che l'affaire Moro non esiste, che esiste una verità storica e che mancano solo dei dettagli da chiarire. Non so cosa di potrà trovare nelle nuove carte di cui si parla, credo poco; ma da quello che abbiamo emerge la estrema incongruenza della 'verità' che in questi trent'anni ci è stata fatta credere. Per quanto riguarda la levatura umana ed intellettuale di Moro, basta leggere le sue opere, anche le lettere dalla prigione per smentire il vile editoriale di Ferrara.

Ieri mattina me ne stavo andando in campagna e mi sono accorto con un trasalimento che trent’anni prima, il 9 maggio del 1978, nella stessa ora in cui adesso viaggiavo in autostrada stavo passeggiando per via delle Botteghe Oscure, direzione piazza Argentina, provenienza il palazzone della direzione del Pci, e accanto a me, nella via Caetani che incrociavo, c’era il cadavere di Aldo Moro composto nel bagagliaio della Renault R4 rossa, dove il presidente della Dc era stato ammazzato al mattino in un garage della periferia romana con una mitraglietta skorpion silenziata. Moro fu ucciso in esecuzione di una sentenza di un tribunale del popolo, eretto dalla direzione strategica delle brigate rosse, dopo cinquantacinque giorni da quel rapimento che risultò nell’unica vera grande tragedia della storia della Repubblica italiana, e il sigillo della sua fine.
Una decina di giorni fa avevo letto il vecchio libro di Leonardo Sciascia su Moro, intitolato “L’affaire Moro” (agosto 1978), e lo avevo trovato ben scritto quanto al ritratto della tragedia, ma pieno di superstizioni, di false piste, di inutili deviazioni dal cuore della cosa, e fazioso, zeppo di pregiudizi, infinitamente vano e letterario nel senso minore del termine, quando letteratura è maniera, ghirigoro, barocchismo lontano dall’essenza metafisica di ogni verità, essere o non essere. All’epoca ne avevo sbirciato con disamore solo qualche estratto sui settimanali, Sciascia mi stava antipatico come intellettuale civile non schierato dalla parte della democrazia repubblicana, tutta la chiacchiera intorno al caso Moro mi sembrava insulsa. Per me era ovvio che lo avessero rapito e ucciso i comunisti delle brigate rosse, si sapeva chi erano, si sapeva in quale contesto armato diffuso operavano, alcuni di loro li si conosceva personalmente, si conosceva il loro linguaggio ideologico, si sapeva quanto fosse debole lo stato in Italia, si sapeva che quella italiana era la frontiera avanzata della guerra fredda, si sapeva che il riflusso del 1967 + 1, negli anni Settanta, aveva diffuso nel mondo e in particolare in Italia l’illusione rivoluzionaria e terrorista, illusione particolarmente acuta e intrinsecamente politica da noi dove c’era il partito comunista più forte dell’occidente, il mio partito comunista, vicino al potere in un quadro internazionale e in una situazione sociale e di cultura incandescenti; venivamo dal Settantasette, dalla cacciata di Lama dall’Università di Roma, e la dc era già un ventre flaccido attraversato da tutte le contraddizioni e su Moro alitavano secoli di scirocco, e in tutto quell’appiccicume bestiale la gente moriva a mazzetti per i colpi delle bierre, e dilagavano le P38, e molti sapevano che il grande attentato politico stava per arrivare, forse ne parlarono alla radio quella mattina stessa, una radio rossa, alternativa, di movimento, e insomma che bisogno c’era di tutta quella chiacchiera depistatoria?
Si sapeva anche che Moro si era comportato in modo umano e vile, umano perché vile e vile perché umano, nel senso che il suo martirio fu personale e familiare, immerso in una struggente religiosa ansia di vivere in comunione con i suoi e poi (a speranze svanite) di continuare a vivere nella luce se solo la luce davvero ci fosse, e “se ci fosse luce sarebbe bellissimo”, come scrisse subito prima di morire; ansia di vivere senza la minima testimonianza di una fede nello stato, con un attaccamento ardente e morboso alla propria vita e al suo amore per la moglie e i figli e i nipoti, con un profondo disprezzo e una tremenda angoscia personale e politica di fronte al fenomeno inaudito di una classe dirigente che, pur compromessa sotto ogni punto di vista nel tradimento di ogni possibile spirito pubblico, in quel tragico presente sacrificava alla tenuta politica e civile dello stato il privato del sequestrato, e anche una antica visione morbida e gelatinosa della società e del diritto tipiche del prigioniero politico, del potente inarcerato e ormai solo, e questo sotto la sferza dei comunisti, di noi comunisti, e del cinismo inevitabile di Andreotti presidente del Consiglio di un monocolore da loro, da noi appoggiato. Una terrificante nemesi storica per l’uomo che aveva lavorato per l’integrazione consapevole, prudente, attenta, dei comunisti in un nuovo patto di blocco o di sindacato in sostegno della Repubblica dei partiti.
Molti continuano a giocare il gioco delle coincidenze simboliche, delle sedute spiritiche, delle liste della P2 negli stati maggiori dell’esercito e dei servizi, molti continuano a vedere ovunque un elemento torbido indecifrabile, quando a me sembra, e in fondo il saggio interpretativo delle lettere di Moro scritto da Michel Gotor con l’ausilio dell’ermeneutica di Leo Strauss va in questa direzione, che restino da decifrare solo i dettagli, questioni interessanti ma non molto importanti. Vedremo, posso sbagliare, ora pare che si aprano nuovi archivi e che siano possibili sorprese. Vedremo.

martedì 13 maggio 2008

Consultabili gli atti della Commissione Moro

Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi

Nella banca dati è attualmente disponibile il fondo "Commissione terrorismo e stragi", limitatamente al filone "Caso Moro", uno dei 27 filoni d'inchiesta che sono presentati come sub-fondi. L'archivio storico, che per la prima volta svolge la funzione tipica dell'Ufficio stralcio di riordino e di pubblicazione dell'Archivio, rende consultabili in Internet progressivamente i filoni d'inchiesta, senza attendere la conclusione del lavoro di inventariazione.
La priorità data al filone "Caso Moro" è stata determinata dalla volontà dell'Istituzione di offrire un contributo alle iniziative in memoria dello Statista nel trentesimo anniversario della scomparsa.

Per la completezza dell'informazione sono stati digitalizzati e sono disponibili in rete gli atti già pubblicati a stampa dalla segreteria della Commissione a conclusione dei lavori, nella serie Atti parlamentari.

Documenti pubblicati dalla Commissione Moro in Atti parlamentari, VIII leg., Doc. XXIII, n. 5

L'archivio della Commissione Moro, già pubblicato a stampa in 130 volumi nella serie degli Atti parlamentari, è stato digitalizzato ed è consultabile attraverso gli indici.

lunedì 12 maggio 2008

Il cinema e il caso Moro

E'da poco tempo disponibile in tutte le librerie Il cinema e il caso Moro di Francesco Ventura, libro che analizza in modo dettagliato e con lucida obiettività i tre film italiani che hanno affrontato la tragica vicenda del rapimento e dell'assassinio di Aldo Moro, seppure con stili e linguaggi completamente diversi. Prima però di Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara, di Buongiorno, Notte (2003) di Marco Bellocchio e di Piazza delle Cinque Lune (2003) di Renzo Martinelli, vi era stato un altro film, Todo Modo (1976) di Elio Petri (tratto dall'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia), che antecedente ai fatti del 9 maggio 1978, aveva già trattato la figura di Aldo Moro, seppure in maniera paradossale e in un contesto labirintico e claustrofobico.
Il film di Petri traccia, infatti, un affresco visionario e grottesco degli Anni di Piombo e della Democrazia Cristiana, immaginando una terribile epidemia che costringe i notabili del partito a riunirsi in un albergo, dove trascorrono tre giorni all'insegna di esercizi spirituali volti alla purificazione dai reati di corruzione e di altro genere da loro commessi. Gian Maria Volonté, qui alla quarta e ultima collaborazione con Elio Petri (dopo A ciascun il suo, La classe operaia va in paradiso e Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto), interpreta il personaggio di Il Presidente, modellato senza ombra di dubbio sulla figura di Aldo Moro, leader che alla fine si suiciderà per completare un diabolico piano nel quale rientrava anche la diffusione della stessa epidemia, perpetrata per liberare l'Italia dalla malvagità della classe politica vigente. Facile, dunque, capire perché l'opera non ottenne alla sua uscita molta considerazione e perché sparì non appena Moro fu assassinato (leggenda vuole, inoltre, che i primi due giorni di riprese del film furono cancellati per un'eccessiva somiglianza di Volonté con Moro, che avrebbe reso impossibile evitare la censura).
Ancora Gian Maria Volonté interpreterà Aldo Moro (ma non più in chiave grottesca, ma mettendone in evidenza tutta la forza e la dignità) nel primo vero film a lui dedicato che è Il caso Moro di Giuseppe Ferrara (1986), opera costruita quasi tutta sui processi e sugli atti della commissione parlamentare, e sceneggiata da Armenia Balducci e da Robert Katz, autore del libro I giorni dell'ira, cui il film si ispirò. La pellicola si pone come "film storico" e assolutamente neutrale, ed infatti trae la sua forza dalla propensione del regista per la parte più scomoda della storia politica del nostro paese (sua è anche la ricostruzione dell'uccisione del generale Dalla Chiesa in Cento a Giorni a Palermo, e suo sarà anche il racconto della figura dell'operaio Guido Rossa, ucciso dalle Brigate Rosse per aver denunciato chi diffondeva volantini a loro favore in Guido che sfidò le Brigate Rosse del 2006). Il caso Moro viene ricordato soprattutto per le splendide sequenze ambientate all'interno del carcere brigatista, ma non colpevolmente finisce per risultare un documento storico incompleto, a causa di elementi riguardanti il rapimento e l'omicidio, che solo negli anni successivi emersero e furono diffusi.
Di altro genere è invece la discussa opera di Marco Bellocchio del 2003, Buongiorno, Notte, presentata in concorso al Festival di Venezia, dove gli fu negato il Leone d'Oro (con pioggia di polemiche), a favore del bellissimo Il ritorno di Andrej Zvjagintsev. Il film pone l'accento sulla figura della brigatista Chiara, coinvolta nel rapimento di Aldo Moro. Mescolando in maniera perfetta ideologia politica, utopie e vita quotidiana (con un'umanizzazione dei personaggi che destò non poche perplessità), il film non offre un'analisi storica della vicenda, ma preferisce concentrarsi (come molto del cinema di Bellocchio) sui risvolti dell'animo umano, ed ecco perché il confine tra realismo e universo onirico risulta a tal punto sottile, che l'opera finisce per trascendere i limiti della singolarità dell'evento, elevandosi ad un'universale e personale visione del terrorismo e dei terroristi. Il successo del film aiutò anche il regista Aurelio Grimaldi a trovare i finanziamenti per realizzare la sua personale trilogia su Aldo Moro, uscita nel 2004 (ma era dal 1996 che c'era l'idea del progetto) in episodi di 80 minuti circa, che ripercorrono i 55 giorni di prigionia.
Ultimo film prodotto sulla figura di Aldo Moro è stato Piazza delle Cinque Lune del regista Renzo Martinelli, autore dell'apprezzato Vajont e in questi giorni in sala con il film Carnera - The Walking Mountain. La pellicola, uscita poco dopo quella di Bellocchio (era sempre il 2003), si presenta come un thriller in piena regola, con personaggi inventati (il giudice istruttore Saracini è interpretato da Donald Sutherland) e un incipit che consente al regista di affrontare in chiave funzionale i segreti e i misteri in cui è ancora avvolta la realtà del caso Moro. L'efficacia visiva di alcune inquadrature, gli ambienti marginali e le atmosfere cupe, consegnano al film un'immagine molto lontana dal cinema-verità, e a poco servono i flashback e le immagini in bianco e nero della prima parte, in quanto la seconda trasforma la vicenda in un poliziesco di vecchia maniera, con soluzioni persino di computer grafica e l'uso di tutti gli stereotipi previsti dal genere. Martinelli dunque non riesce completamente nel tentativo di uscire dalla autorialità e di avvicinare la delicata vicenda ad un pubblico più numeroso e meno pretenzioso, ma ha il privilegio negativo di funzionare da perfetto raccordo allo sconfinamento del "caso Moro" nel territorio della fiction televisiva, che ne ha preso le redini per i successivi anni. Oggi sono passati trent'anni da quel fatidico giorno e il fatto che a raccontarlo sia solo la televisione (nello stato attuale in cui risiede), e non più il cinema, mette in luce una pericolosa inversione di ruoli, che potrebbe portare delicate vicende storiche a trasformarsi (se già non l'hanno fatto) in scialbo materiale narrativo schiavo dell'auditel.

Diego Scerrati

giovedì 8 maggio 2008

Una vita per Moro


Il ritrovamento del cadavere di Moro la mattina del 9 maggio è annunciato da una telefonata del brigatista Morucci a Franco Tritto, allora giovane assistente all'università "La Sapienza".
Qualche giorno prima del 16 marzo, nel loro ultimo incontro, si erano scambiati, maestro e allievo, queste parole:
"vedrai, caro Franco, quest'anno ci sarà molta più violenza ..."
"Speriamo di no, Professore".
La vita di Tritto è stata segnata dalla morte di Moro e da quella telefonata.
Il suo straordinario e radioso sorriso ogni tanto cedeva il posto alla tristezza; la sua giovialità celava con difficoltà il dolore che ha caratterizzato la sua esistenza a partire dal 9 maggio del 1978.
Grazie a lui Moro ha continuato a vivere nell'aula XI della Sapienza, è stato conosciuto e studiato da centinaia di studenti. La sua stessa presenza portava inevitabilmente il pensiero a Moro, al dramma del suo rapimento, ai molti misteri dei 55 giorni, alla immagine della Renault rossa ...
L'ho conosciuto nella sua stanza al Dipartimento di Teoria dello Stato sotto la foto del suo maestro ... E' stato un amico, un punto di riferimento, una specie di fratello maggiore.
L'ultima volta che l'ho visto aveva in mano una copia del libro della sua vita, le lezioni di Moro, a cui aveva lavorato ansiosamente, quasi presagendo la fine, con stati d'animo diversi, con rabbia, con dolore, ma anche con tanto amore.
Oggi 9 maggio 2008, a trent'anni dalla morte, lascio volentieri agli altri il compito di parlare di Moro, di arrabbattarsi a recitare un canovaccio di frasi fatte e di luoghi comuni, di ipocrisie e di bugie.
Voglio essere tra i pochi che oggi si ricorderanno di Franco Tritto e gli rivolgeranno un pensiero affettuoso.

Ringrazio l'amico Francesco Ciccio Amodio per la bellissima foto di Tritto.

venerdì 2 maggio 2008

Una verità a puntate.

Come ho più volte detto, molti che conoscono tante cose sulla vicenda Moro (americani, servizi, brigatisti, Cossiga) preferiscono dare notizie a puntate ... Eccone un'altra ... Da Panorma di questa settimana.
Francesco Cossiga vede in anteprima, con Panorama (la cronaca sul numero in edicola da giovedì 1° maggio), Aldo Moro. Il presidente (della TaoDue Film), che andrà in onda su Canale 5 il 9 e l’11 maggio. E nell’occasione racconta particolari inediti sui 55 giorni del rapimento dello statista ucciso dalle Brigate rosse. “Centrale è il ruolo del Vaticano” ricorda Cossiga.
“Ma anche intorno a questo passaggio cruciale bisogna aggiungere un nuovo pezzo di verità: ho sempre creduto che don Antonello Mennini, allora suo confessore, attualmente nunzio apostolico in Russia, abbia incontrato Moro prigioniero delle Br per raccogliere la sua confessione prima dell’esecuzione dopo la condanna a morte. Come ministro dell’Interno allora mi sentii giocato. Mennini ci scappò. Seguendolo avremmo potuto trovare Moro. Ma ancora oggi il Vaticano è riuscito a fare in modo che Mennini non potesse essere interrogato mai da polizia e carabinieri”.
Nell’intervista a Panorama, Cossiga svela anche un’altra verità, questa volta politica: “Durante i 55 giorni siamo stati a un passo dalla rottura con il Pci. La politica della fermezza voluta dal governo di unità nazionale concedeva alla famiglia di Moro la piena libertà di trattare per la liberazione, ma mai direttamente con le Br. Attraverso la Caritas, la Croce rossa, Amnesty international oppure il Vaticano, l’Onu… Ma un certo punto venne da me Enrico Berlinguer, insieme a Ugo Pecchioli, il suo ministro degli interni, per dirmi: “Adesso basta, abbiamo detto che non si tratta e non si tratta”.
In confidenza, poi, Pecchioli si preoccupò di informarmi che se si fosse trattato di pagare molti soldi sarebbe stato meglio non lo dirlo prima, così il Pci avrebbe potuto protestare senza però arrivare alla rottura politica. Tutto questo nel film non c’è”.
Guardando lo sceneggiato televisivo, il presidente emerito della Repubblica è rimasto colpito soprattutto dall’interpretazione che Michele Placido fa dello statista ucciso dalle Br. “Placido fissa per sempre nell’immaginario televisivo un Moro idelebile” commenta. “Ma devo dire che il più verosimile di tutti mi è sembrato Benigno Zaccagnini. Uguale!”.

giovedì 1 maggio 2008

Il discorso ai gruppi parlamentari

Trent´anni fa, il 28 febbraio 1978, Moro tenne il suo ultimo discorso pubblico, pochi giorni prima di essere rapito. Quello che è poi diventato il suo testamento politico fu pronunciato in un´occasione straordinaria: l´assemblea di deputati e senatori della Dc convocata per decidere se inserire i comunisti nel governo o escluderli, pretendere nuove elezioni anticipate - le terze in pochi anni - ed, eventualmente, passare all´opposizione.
Moro pronunciò un lungo e complesso discorso di mediazione, tipico di uno stile da molti considerato bizantino e oscuro e perciò oggetto, proprio in quei giorni, delle critiche della stampa. Ma dietro quel discorso si nascondeva una posizione netta: sarebbe stato sbagliato andare alle elezioni e si dovevano accogliere, almeno in parte, le richieste comuniste, facendo entrare il Pci nella maggioranza.
Lo mostrano gli appunti vergati durante quella drammatica assemblea ed ora conservati, insieme ad altri importanti documenti, nelle carte Moro presso l´Archivio Centrale dello Stato. Con una scrittura non facilmente decifrabile, egli annotò in fretta le sue risposte alle obiezioni di quanti volevano svincolarsi dalla coabitazione con i comunisti. L´analisi era lucida, stringente.
Dopo il referendum sul divorzio del 1974 e le disastrose elezioni regionali del 1975, nelle politiche del 20 giugno 1976 quello ottenuto dalla Dc era stato un «successo insperato» (che, nel discorso pubblico, si trasformò in una più nobile «vittoria» prodotta da un «soprassalto di consapevolezza» degli elettori), cui aveva fatto da pesante contrappeso «un progresso allarmante» del Pci (mentre Moro parlò poi, in modo più neutro, di «due vincitori»). La conseguenza era stata che i due partiti maggiori potevano ora «paralizzarsi» a vicenda: si trattava di una situazione da cui non si sarebbe usciti con nuove elezioni che, anzi, avrebbero prodotto un ulteriore «logoramento».
Secondo Moro, non si trattava solo di una scelta politica obbligata: era anche quella moralmente più valida. In quell´assemblea, emerse anche il problema del rapporto tra valori ideali e azione politica, una questione che torna a riproporsi in campo cattolico. Rivolgendosi ai parlamentari democristiani, Moro manifestò attenzione per motivazioni ideali e preoccupazioni etiche, ma per lui il giudizio morale non poteva prescindere dalla realtà delle «cose», anzi dalla «lenta» e «travagliata» ricerca della «verità» (seppure intesa limitatamente come «verità politica»).
Egli era, infatti, contrario al compromesso storico, ma invocare «coerenza» rispetto ai propri valori, «fedeltà» agli elettori, difesa della propria «identità» per interrompere la collaborazione in atto, significava per lui «ridursi alla testimonianza», «arrendersi», «ritirarsi», mancare di «coraggio», tradire cioè le proprie responsabilità verso il paese. Proprio l´ispirazione cristiana, infatti, imponeva di anteporre il bene comune all´affermazione di un´identità di parte.
Rompere con i comunisti, tra l´altro, avrebbe peggiorato la condizione dei cattolici. Il rapporto con il Pci, infatti, aveva attenuato il pesante isolamento cui la Dc era stata costretta dalla decisione dei socialisti di interrompere definitivamente l´esperienza di centro-sinistra. A più di due anni da quella decisione, Moro tratteneva ancora a fatica la sua irritazione: «si può rispettarli, si deve rispettarli», concedeva, ma senza dimenticare l´«impatto durissimo del loro agire».
Per la prima volta dal 1947, infatti, la Dc non era più in condizione di formare una maggioranza politica organica (almeno «al momento» corresse nell´ultima stesura): il tramonto della centralità democristiana - su cui avrebbe insistito anche negli scritti della prigionia - più che dai successi comunisti dipendeva dunque dai socialisti.
Moro intuì che questi speravano di intercettare i movimenti della società italiana formando, insieme a nuove forze emergenti, un forte polo laico e comprese che si stava preparando una trasformazione del panorama politico italiano. (Non riuscì invece ad immaginare che sarebbe stato anche largamente superato «il primato di una ventina di partiti» allora detenuto dall´Olanda, su cui egli ironizzò proprio durante quell´assemblea).

Agostino Giovagnoli per "la Repubblica"

Aldo Moro: un'eredità che nessuno ha raccolto (intervista a Franco Tritto)

Fra pochi giorni si scatenerà, da una parte, la corsa alla commemorazione di Aldo Moro nel trentennale della sua morte e, dall'altra, si tenderà di accreditarsi come gli eredi e in qualche modo i continuatori del suo pensiero ...
Franco Tritto, sempre refrattario e diffidente rispetto ai rituali del 16 marzo e del 9 maggio, due anni primi di morire, ha rilasciato questa intervista al mensile "50&Più" (intervista di Mario Prignano) che mi sembra interessante riproporre in questa occasione:



- Professore, tante manifestazioni e discorsi: crede che al di là delle parole ci sia davvero qualcuno che in Italia possa davvero parlare in nome di Aldo Moro?
No, nella maniera più assoluta. In occasione delle due ricorrenze storiche, il 16 marzo e il 9 maggio di ogni anno, siamo costretti ad assistere ad una sorta di tiro alla fune, per potersi accaparrare l'eredità politica di Aldo Moro. È una cosa penosa e raccapricciante ad un tempo. Credo di poter dire che nessuno oggi è in grado di accreditarsi una ipotetica, se mai possibile, eredità politica di Aldo Moro. Nessuno è alla sua altezza

La sua intelligenza, la sua statura umana, morale, politica, fanno di Moro un unicum nella storia d'Italia e, direi, a livello internazionale. Se a tutto questo aggiungiamo, poi, la capacità delle forze politiche di recepire e comprendere il vero senso del suo insegnamento, ecco che non riesco proprio ad intravedere nemmeno lontanamente, chi possa essere in grado di rappresentare davvero il suo pensiero.



- Si è sempre detto che la vicenda Moro rappresenta una cesura nella storia d'Italia contemporanea, che nulla dopo di allora è stato più uguale a prima. Qual è la sua opinione al riguardo?
È proprio vero: nulla è più come prima e questo per una serie di ragioni. In prima luogo credo di poter dire che se Aldo Moro fosse stato ancora tra noi, avremmo avuto un Paese un po' meno volgare. La politica sarebbe stata meno volgare. Sono sotto gli occhi di tutti le baruffe politiche alle quali siamo costretti ad assistere quotidianamente. Spesso i politici di oggi, senza distinzione alcuna, dimenticano l'obbligo, morale prima ancora che politico, di rappresentare l'Italia migliore, di dare un buon esempio, l'esempio della civiltà, non della volgarità. E invece vi è chi è convinto che la rappresentanza politica si conquista offrendo urla e schiamazzi [...] mentre dovrebbe essere la capacità di ascoltare, di capire le ragioni degli altri, di donare e ricevere fiducia, il vero modo di rappresentare la gente. Come seconda riflessione vorrei richiamare l'attenzione sulla capacità che Moro aveva di bloccare i processi degenerativi in qualsiasi ambito. Tutto questo lo induceva a prevedere con largo anticipo quali sarebbero state le conseguenze negative se, ad esempio, una legge o una riforma fossero andate in porto così come erano state inizialmente concepite. Lui faceva in modo che potessero maturare i tempi perché fossero apportati gli opportuni rimedi e le cose potessero prendere il giusto verso. Questo si è verificato in molti casi ... C'è poi un altro aspetto che credo sia fondamentale. Moro si era reso conto del rischio che stava correndo il sistema dei partiti, sempre più avvinghiato alle questioni di potere, sempre più proteso verso il sistema degli affari, così come aveva percepito che da qualche parte qualcuno stava progettando di usare la giustizia penale per fini politici. Dopo il 1978 qualcosa è cambiato. La corruzione si è trasformata in sistema proprio a partire da quella data. Altrettanto dicasi sul tema della giustizia adoperata per fini politici. Talvolta la nostra memoria non è a lunga percorrenza: nessuno (storici, politologi, giornalisti) ha mai riportato la mente alla campagna elettorale del 1976: le pareti di questa bella Italia erano tappezzate con enormi manifesti con uno slogan ed un'immagine molto familiari "mani pulite". Ecco Moro aveva percepito perfettamente il senso di quei manifesti, ed aveva intuito che qualcosa di anomalo e di preoccupante, per una democrazia, si andava profilando all'orizzonte della vita politica italiana e, pertanto, voleva vederci chiaro. Temeva sin da allora che davvero potesse iniziare un'era della giustizia penale usata a fini politici. Il 3 marzo del 1977 pronunciò il noto discorso sulla Lockheed innanzi al Parlamento in seduta comune. Di quel discorso viene rievocata sempre la frase "non ci faremo processare nelle piazze", ma ve n'è un'altra, a mio avviso, molto significativa, pronunciata da Moro in quella sede: "c'è un rischio di involuzione verso una giustizia politica". Ecco, vede, Moro aveva percepito in pieno da un lato il rischio del propagarsi della corruzione nel sistema politico italiano e, dall'altro aveva colto i primi segnali di una involuzione verso una giustizia politica. Se non fosse stato assassinato sono convinto che sarebbe riuscito ad evitare sia l'una cosa che l'altra. Purtroppo le cose sono andate come sappiamo.


- La storia non si fa con i se. Tuttavia se Aldo Moro fosse ancora tra noi lei lo immagina sulla breccia e attivo come lo sono ad esempio Andreotti, Cossiga o Scalfaro, oppure rinchiuso nel suo studio di via Savoia a scrivere memorie lontano dal mondo politico di oggi?

Mi sembra di aver letto da qualche parte: "E se la verità fosse quella giudiziaria?". Ecco questo è un se che reca danno alla storia, che è smentito non solo dalle dichiarazioni di alcuni magistrati che si sono impegnati per anni in prima persona nei vari processi, e che hanno messo in evidenza, comprovandole, le infinite menzogne che sono state raccontate proprio nel corso dei processi ... Con riferimento alla seconda parte della sua domanda non credo che Moro sarebbe mai rimasto rinchiuso nel suo studio: le finestre del suo pensiero erano sempre aperte, aperte verso il mondo, verso il nuovo che avanza, verso i giovani, verso le loro ansie, le loro aspirazioni. Credo che sarebbe stato un senatore a vita, nel senso di appartenenza alla vita degli italiani, così come, di fatto, è nei cuori della gente ...


- Il sequestro e la morte di Aldo Moro presentano ancora tanti lati oscuri. Crede che si arriverà mai a sapere quello che successe nei 55 giorni di prigionia?
I lati oscuri sono molti e preoccupanti. Credo che sia proprio giunta l'ora di fare chiarezza, altrimenti la storia d'Italia resterà incompiuta. Non tutte le responsabilità per la morte di Moro sono emerse o sono state attribuite, e non tutti coloro che possono dire hanno detto. Ma non riesco a spiegarmi per quale ragione (o forse riesco a spiegarmelo fin troppo bene) chi sa non dice, chi potrebbe offrire un contributo vero alla storia di questo paese, si astiene dal farlo. Venticinque anni sono un lasso di tempo abbastanza ragionevole perché gli eventi possano essere storicizzati. Peraltro il dire può essere liberatorio: "la verità è sempre illuminante, aiuta ad essere coraggiosi", diceva Moro.


- Qual è stato, e chi l'ha commesso, l'errore più grave compiuto in quei tremendi 55 giorni?
Errori ce ne sono stati molti. Ma non spetta certo a me dire quali siano stati quelli sotto il profilo giudiziario e chi li ha commessi. Dal punto di vista politico, l'errore più grave è stato quello di non aver valutato che cosa avrebbe comportato per la vita del paese l'assenza di una persona come Aldo Moro. E questo sì, questo posso dirlo, è stato un errore commesso dai comunisti e da buona parte dei democristiani dell'epoca. E vorrei ricordare i firmatari di una lettera nella quale si diceva che il pensiero di Moro non era riconoscibile nelle sue lettere inviate dalla prigionia. E pensare che sarebbe stato sufficiente leggere qualche frase dei suoi interventi tenuti all'Assemblea Costituente, o delle sue lezioni sul diritto e sullo stato, per avere conto della sua coerenza, di quale fosse il suo pensiero in tema di valori, di valore della vita dell'uomo ...

Tutta la verità sul caso Moro?

Riporto questa notizia del settimanale Panorama. Se confermata, le carte di cui si parla potrebbero chiarire alcuni dei lati oscuri della vicenda Moro. Naturalmente ci auguriamo che a distanza di 30 anni sia giunto il momento di chiudere la pagina più drammatica della storia di questo paese. Ma si troverà il coraggio di dire la verità? Da troppi anni assistiamo ad un balletto di mezze verità, di dichiarazioni, di smentite, di puntualizzazioni, di menzogne, di rivelazioni a puntata ... Moro è stato tradito ed ucciso tante volte. Dopo trent'anni è il caso di farlo riposare in pace facendo conoscere tutta la verità.

La storia top secret del caso Moro è dentro più di 100 faldoni coperti dal segreto di stato e custoditi un un armadio blindato degli archivi della commissione Stragi. Lo rivela il settimanale Panorama, in edicola domani.

Quel materiale fu inviato a Giovanni Pellegrino, nell'agosto del 1998, dall'allora ministro dell'Interno Giorgio Napolitano, con un lettera in cui il responsabile del Viminale parlava di documenti «non portati a conoscenza dell'autorità giudiziaria», di «atti di elevata classifica», perciò da «considerarsi di vietata divulgazione».

Si tratta di fascicoli provenienti dal Sisde, dal Sismi e da sedi diplomatiche italiane all'estero: appunti, relazioni, brogliacci di telefonate e trasmissioni radio intercettate, confidenze di «gole profonde», informative di altri servizi segreti (austriaco, tedesco federale, israeliano, libanese). Parte di quel materiale risale al periodo tra l'inizio di febbraio e il 16 marzo 1978, cioè il mese e mezzo che precedette il sequestro.
Ci sono, fra quelle carte, anche fascicoli sui piani predisposti dal ministero dell'Interno (noti come Mike e Victor) durante i 55 giorni del sequestro e sul lago della Duchessa, su via Gradoli e sui luoghi in cui poteva trovarsi il prigionero Moro.
«C'è un tesoro lì dentro», ha dichiarato a Panorama Pellegrino, ex presidente della commissione Stragi. «Un tesoro che non abbiamo mai potuto utilizzare perché coperto dal segreto. Ma oggi, a 30 anni di distanza dall'assassinio di Aldo Moro,il segreto su quelle carte deve cadere».

Panorama ha interpellato anche il giudice Rosario Priore, che diresse le prime quattro inchieste sul caso Moro. Ha dichiarato: «Vengo a conoscenza solo ora dell'esistenza di quel materiale. A una prima occhiata, sulla base dei "titoli", quei documenti mi sembrano molto interessanti. Ne traggo un'ulteriore conferma che il caso Moro sia ancora aperto, dal punto di vista storico. Spero che il segreto venga tolto al più presto, e che quel materiale venga messo a disposizione degli studiosi, dei giornalisti e dell'opinione pubblica».

Moro si poteva liberare: lite tra Galloni e Cossiga

Dal Corriere della Sera del 23 ottobre 2007, riporto questa notizia su un tema che ci sta particolarmente a cuore, il caso Moro. In altri post ho parlato di una verità a tappe, a puntate ... a quanto la prossima?

Gli americani sapevano «dove era la prigione di Aldo Moro». E «Cossiga non ha detto tutto a proposito della prigione» che non è «quella di cui hanno parlato i brigatisti». È Giovanni Galloni, tra i fondatori della corrente di sinistra della Democrazia Cristiana e amico di Aldo Moro, a lanciare queste accuse a trent' anni dal rapimento dello statista democristiano. Scatenando la reazione dell' ex ministro dell' Interno: «Se fossi il procuratore aggiunto Franco Ionta lo convocherei per sentirlo in procura, a Roma», ha dichiarato Cossiga, «perché forse c' è la possibilità che possa essere incriminato per appoggio esterno ad atti di terrorismo. Ma poi nel processo sarebbe certamente assolto per chiara infermità mentale». L' ultima rivelazione sul sequestro, Galloni, che sta per dare alle stampe un libro su quella vicenda, la butta lì alla presentazione del saggio di Giuseppe De Lutiis: «Il golpe di via Fani». Cita il viaggio che l' 8 di aprile il generale Vito Miceli, uomo dei servizi segreti, fece negli Usa. «Ebbe incontri riservati con gli uomini importanti della Cia e con gli amici di Kissinger - ricorda Galloni -. In quella sede gli fu detto che Moro si poteva salvare soltanto scoprendo il covo e liberandolo. Miceli capì che gli americani sapevano molto, sapevano perfettamente dove era la prigione del presidente della Dc, dove era Moro». Quindi le accuse all' ex capo dello Stato. «Il 9 maggio del 1978 - ha detto Galloni - Cossiga sapeva e si aspettava che Moro sarebbe stato liberato. Accadde qualcosa». D' accordo Giovanni Pellegrino, ex presidente della commissione stragi, che crede però nella buona fede di Cossiga: «Aveva dato forte credito ad una informazione che due giorni prima del 9 di maggio, e anche la sera prima del delitto, gli aveva fornito il presidente del Consiglio Giulio Andreotti. "Francesco non ti preoccupare che a liberare Moro ci penserà il Vaticano". La trattativa era giunta al termine ma è successo qualcosa che ha fatto precipitare gli eventi».

In ricordo di Franco Tritto

A due anni dalla morte dell'amico Franco Tritto vi ripropongo il ricordo che ho scritto per la introduzione al libro, Itinerari di cultura giuridica e politica, Aracne, Roma 2006.

Colgo l'occasione per segnalarvi il sito www.aulaxi.it che gli studenti hanno dedicato al prof. Tritto.

Il diritto penale dal volto umano
Ricordando Francesco Tritto allievo di Aldo Moro.


[ ... ] La vita di un allievo rimane quasi sempre ed inevitabilmente legata a quella del suo maestro. In Franco Tritto questo legame è stato ancora più forte perché, dalla morte del suo Maestro, la sua vita, almeno quella ‘pubblica' e universitaria in particolare, è stata caratterizzata in tutti i sensi dal suo rapporto, complesso, viscerale, romantico direi, con Aldo Moro.
I suoi principali lavori sono interpretazioni del pensiero penalistico di Moro o suoi immediati sviluppi; la sua ‘carriera' universitaria nasce e ... finisce (ma questo non fu mai per lui un dramma) con Moro; il suo atteggiarsi nei confronti della Università e nel rapporto con gli studenti, considerati la parte più sana e vitale di quel mondo, è decisamente moroteo. Dalla morte di Moro, vissuta come è noto drammaticamente e dalla quale mai più si era in un certo senso ripreso, Tritto ha vissuto nel segno del suo Maestro, ha avuto un solo scopo (anche perché quello che pure lo tormentava della ricerca della verità storica sulla vicenda dei 55 giorni del rapimento e dell'uccisione era decisamente fuori dalla sua portata): custodire la memoria di Moro, difenderla orgogliosamente, solitariamente, spesso velleitariamente, in un contesto politico-culturale fatto di opportunismi, strumentalizzazioni e tatticismi. Difesa della memoria non tanto o non solo in prospettiva storica o storiografica, ma soprattutto sul piano etico e culturale, come modello ed esempio da additare alle nuove generazioni. Per questo motivo Moro è sempre presente nelle sue lezioni che si aprivano immancabilmente con un piccolo scritto del suo maestro, le Confidenze di un Professore.
Se Moro, non il Moro statista e politico, ma il Moro docente universitario e ‘uomo normale' viene ancora letto e studiato da molti giovani che hanno frequentato e frequentano la Facoltà di Scienze Politiche alla "Sapienza", questo si deve solo all'insegnamento e all'esempio di Francesco Tritto.
Non è un caso che, quasi naturalmente (anche se il male è stato profondo, crudo, violento oltre che rapido), subito dopo la pubblicazione del libro che raccoglie le lezioni di Moro tenute nella Facoltà di Scienze Politiche di Roma nell'anno accademico 1975-76, Tritto ci ha lasciato lasciandoci, però, l'opera alla quale ha dedicato gli ultimi anni di vita e che in precedenza non aveva avuto il coraggio di affrontare. La serenità profondamente cristiana che lo ha accompagnato negli ultimi istanti della sua esistenza terrena è anche le serenità per l'opera compiuta, per la testimonianza di amore e di fedeltà completamente realizzata. Anche se in uno degli ultimi incontri, mi aveva espresso il rammarico per non essere andati così come programmato (in sordina rispetto alle poco gradite celebrazioni ufficiali) a visitare la tomba di Moro a Torrita Tiberina; rammarico, non so se accompagnato dal presentimento della fine, perché quella visita avrebbe dovuto avere un significato diverso dagli altri anni: avrebbe voluto comunicare al Maestro che l'allievo aveva diligentemente adempiuto al suo dovere.
A quel dovere che Tritto ha riversato in tutta la sua esperienza, vissuta con passione e impegno prioritario e totale, di docente universitario: le sue lezioni erano frequentatissime e seguitissime, il suo rapporto con gli studenti straordinario; ogni studente sapeva di avere in lui un punto di riferimento umano; una persona, prima che un professore, sulla quale avrebbe potuto contare, che lo avrebbe ascoltato, capito e incoraggiato. Ogni studente, così come ognuno che lo conosceva, sapeva che aveva di fronte una persona buona che lo avrebbe sempre accolto con il suo sorriso pieno di luce. Con quel sorriso con cui continueremo sempre a ricordarlo.
A poco più di un anno dalla sua scomparsa, abbiamo voluto dedicare affettuosamente a Franco Tritto questo lavoro, da tempo programmato e al quale avrebbe dovuto partecipare con un saggio sulle linee generali del pensiero giuridico di Aldo Moro.

Mario Sirimarco

Tra l'amore e il dolore

Il modo migliore per ricordare Aldo Moro, per non seguire i soliti rituali commemorativi che si ripetono ogni anno il 9 maggio e che hanno come unico scopo il tentativo di accaparrarsi un’eredità culturale di cui non si è degni, penso sia quello di cercare di studiarlo, perché Moro, prima di tutto, fu un grande pensatore.
Nella ricca introduzione alla raccolta dei discorsi e degli interventi parlamentari di Aldo Moro, Mino Martinazzoli ha scritto che “la mediazione politica presuppone e coinvolge una mediazione culturale, un pensiero, un confronto di idee, un’attenzione riflessiva a ciò che manifesta il corso della storia. E’ inconcepibile svincolare l’impegno politico da questo sforzo di razionalità pratica. Senza intelligenza storica la politica è condannata a dipendere dai fatti, limitandosi a registrarli o, peggio, a subirli, anziché aspirare a governarli”. Solo per inciso è il caso di puntualizzare che la vocazione alla mediazione nel Moro politico è l’opposto di una scelta tattica. Si tratta di un tema molto controverso legato all’idea di un Moro temporeggiatore e consociativistico che spesso viene equivocato. La mediazione, come giustamente puntualizza Martinazzoli, in Moro “rientra in un disegno politico-istituzionale nel quale il sistema parlamentare è assunto come chiave di volta dell’evoluzione democratica del paese”.
Se indubbiamente il Moro “politico”, nel senso di uomo delle istituzioni, ha lasciato un ricordo indelebile nella storia italiana del ‘900, certamente il Moro “uomo di pensiero” ha fatto sì che in lui si potessero coniugare mirabilmente l’impegno e la passione politica con quella idea di mediazione culturale di cui ha parlato Martinazzoli. Solo così il politico, cogliendo e interpretando correttamente i mutamenti storici, può apprestare gli strumenti politico-istituzionali per guidarli. La constatazione che, parlando di Moro, spesso si fa delle sue intuizione rimaste tali perché non adeguatamente comprese dalla classe dirigente, accresce la peculiarità e l’eccezionalità della sua figura che resta quella di un “intellettuale che fa politica”.
In Moro si realizza una perfetta sintesi tra azione e riflessione: “non c’è testo, discorso o intervento, in cui i fatti della politica e le vicende storiche non diventino per lui gli elementi di un’analisi razionale, giudicati sotto il profilo delle implicazioni e delle conseguenze, osservati in un quadro più ampio per rivelare significati ulteriori e per trarne ispirazione in vista di scelte coerenti. Si percepisce in tutti gli scritti di Moro la tensione ad andare oltre la superficie delle cose, per coglierne i movimenti profondi, i lievi annunci, le intenzioni anche appena aleggiate” (M. Martinazzoli).
Sia il Moro politico, sia il Moro istituzionale trovano riferimento, spesso viene sottaciuto, in un altro Moro, senza il quale la specificità morotea di coniugare azione e riflessione non avrebbe avuto la profondità e l’acutezza che invece ne hanno caratterizzato il percorso politico-istituzionale e umano.
Mi riferisco al Moro pensatore, al Moro docente universitario, in particolare al Moro docente di Filosofia del diritto, esperienza che è alla base della sua complessa personalità. La filosofia del diritto è materia, apparentemente lontana da quell’ambito penalistico nel quale si collocavano gli interessi prevalenti del giovane docente, ma è indicativa dell’attenzione che già allora egli riservava ai problemi della politica, dello Stato e della necessità di coniugare diritto e morale. Nel giovane Moro si realizza, infatti, una perfetta complementarietà di diritto-politica e morale in quanto le categorie della giuridicità e della politica sono, ed è qui che si sente maggiormente la lezione di Giuseppe Capograssi, espressione della vita etica e cioè di quel processo attraverso il quale “il soggetto realizza la sua vita più vera, ascendendo dal piano della sua particolarità empirica a quello della universalità, che rappresenta il suo valore propriamente umano … l’eticità è in ogni caso slancio spontaneo della persona che, superando le angustie del suo limite particolare, spazia nell’universale” (A. Moro).
La vicenda umana e personale di Aldo Moro si lega mirabilmente al suo percorso e al suo travaglio filosofico. In poche figure, come in Moro, c’è una perfetta coincidenza di vita e di filosofia. La sua vita, e soprattutto la sua tragica fine, lo dimostrano.
Quando dal “carcere” delle BR Moro rivendica la centralità dell’individuo rispetto allo Stato, non pensa mediocremente alla sua vita da salvare. Quel grido non è l’egoistica rivendicazione di un potente che chiede per sé una eclatante eccezione alla cinica legge della ragion di Stato. E’ il grido disperato di chi, di fronte alla fredda logica del “diritto del potere”, contrappone, come fece Antigone di fronte a Creonte, il “potere del diritto”, l’idea, cioè, che lo Stato ha il suo valore nella difesa della vita umana e che lo Stato non può mai sacrificare la vita di un uomo, tanto più se si tratta della vita di un innocente.
Si tratta di un grido disperato, però, perché Moro sa bene come andrà finire … Lo sa da quando, giovane docente, scriveva: “Probabilmente, malgrado tutto, l’evoluzione storica di cui noi saremo stati determinatori, non soddisferà le nostre ideali esigenze: la splendida promessa, che sembra contenuta nell’intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà mantenuta. Ciò vuol dire che gli uomini dovranno pur sempre restare di fronte al diritto e allo stato in una posizione di più o meno acuto pessimismo. E il loro dolore non sarà mai pienamente confortato. Ma questa insoddisfazione, ma questo dolore sono la stessa insoddisfazione dell’uomo di fronte alla sua vita, troppo spesso più angusta e meschina di quanto la sua ideale bellezza sembrerebbe fare legittimamente sperare. Il dolore dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la cui vita è tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno. E’ un dolore che non si placa, se non un poco, quando sia confessato ad anime che sappiano capire o cantato nell’arte o quando la forza di una fede o la bellezza della natura dissolvono quell’ansia e ridonino la pace. Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino”.
Il nostro paese necessita, lo si sostiene da più parti, di una seria e profonda riflessione sulla sua storia. In particolare di quella parte della sua storia che si collega al movimento cattolico, alla presenza politica dei cattolici-democratici e alla DC. Dovrebbero essere avviate serie iniziative storiografiche soprattutto per cercare di capire come è stato possibile che il sistema di potere costruito dalla DC sia degenerato e trasfigurato nella corruzione … Ci si deve chiedere quando è cominciata la fine di quella che qualcuno, forse impropriamente, definisce la prima repubblica.
Se si vuole veramente, ripensare la storia di questo paese dobbiamo partire da quei giorni, riconsiderare l’atteggiamento dello Stato, e della DC in particolare, nelle concitate fasi del rapimento di Moro. Non dobbiamo rinchiuderci nella acritica affermazione che non c’era via di uscita e che non si poteva scendere a compromessi con i brigatisti. Occorre, invece, riconoscee che l’aver consentito che Moro, un uomo, pagasse quel prezzo, che la logica del potere prevalesse su quella del diritto, è stato un altro forte scossone alle fondamenta umane e cristiane del nostro paese.
Da allora non poteva essere tutto come prima, non è stato tutto come prima. La degenerazione inizia da quel momento in un vortice che ancora fa sentire i suoi effetti ...

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Queste brevi note sono tratte da un mio lavoro ancora in fase di preparazione dal titolo Tra l’amore e il dolore. Introduzione alla filosofia giuridica di Aldo Moro, ispiratomi dalla frequentazione e dall’amicizia con Franco Tritto, coerente, ostinato e solitario custode dell’insegnamento del suo Maestro.

Mario Sirimarco

Abbiamo ucciso Aldo Moro

Parla il consulente americano di Cossiga

tratto da L'Unità del 9 maggio 2007

"A Parigi, di passaggio dagli Usa, Steve Pieczenik - invitato dal giornalista Emmanuel Amara per intervistarlo per una serie di trasmissioni tv in Francia e la presentazione di un libro - ci permette di avere un colloquio con lui. Durante il sequestro Moro furono molto attivi tre Comitati per la gestione della crisi: ci sono pochi dati per ricostruire con precisione l'attività di questi gruppi, in quanto dagli archivi del Viminale a detta del senatore Sergio Flamigni, membro della Commissione Stragi, sono scomparsi i verbali delle riunioni e altri documenti.
L'americano Pieczenik, assistente del Sottosegretario di Stato, era il capo dell'Ufficio per la gestione dei problemi del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato Usa, Ufficio che era stato istituito da Henry Kissinger. Come ci ha confermato l'ex ministro dell'Interno, Francesco Cossiga, Pieczenik venne invitato subito dopo il rapimento di Aldo Moro a fare parte di un Comitato di esperti cui faceva capo, appunto, Cossiga, per fare fronte all’emergenza. Al suo fianco c'era anche il criminologo Franco Ferracuti, che in seguito risultò far parte della P2.
Era allora il responsabile della cellula antiterrorista del Dipartimento di Stato. Finito il suo incarico alle dipendenze dell'Amministrazione Usa, molto dopo il caso Moro ha incominciato a scrivere numerosi romanzi di spionaggio.
«Ben Reid, che dipendeva da Cyrus Vance, il ministro degli Esteri, mi convocò - racconta Pieczenik - nel suo ufficio. Si rivolsero a me perché avevo studiato ad Harvard e al Mit. Poi Kissinger qualche tempo dopo mi incaricò di dirigere la prima cellula antiterroristica degli Usa. Nel 1978 l'Italia, fino al rapimento Moro, era abbastanza trascurata dai nostri. Quando arrivai mi resi subito conto che il Paese era nel caos.
Scioperi continui, manifestazioni sindacali ed estremisti di sinistra, mentre l'apparato dello Stato rimane in mano a vecchi fascisti che poi mi sono reso conto erano stati infiltrati dalla P2. Fra l'altro ho potuto constatare con il ministro dell'Interno di allora Cossiga che costui non aveva nessuna strategia ne alcun piano d'azione».
Cossiga ha parole forti nei confronti di quanto Pieczenik dice: «È alla ricerca di notorietà, visto che ha intrapreso definitivamente la sua attività di scrittore per i libri e per il cinema... Fa affermazioni quanto meno azzardate».
«Quello che mi aveva sorpreso - chi parla ora è sempre Pieczenik - in quei giorni è che i gruppi fascisti tenevano in permanenza le leve del potere in Italia. Mi resi conto in fretta che anch'io ero poco al sicuro. Mi ero quindi reso conto che le Br avevano degli alleati all'interno della macchina dello Stato. Dopo qualche riunione che consisteva nell'identificare il centro di gravità attorno al quale la storia del rapimento girava, ho subito capito che le forze conservatrici volevano la morte di Moro, le Br lo volevano vivo, i comunisti invece, la loro posizione era quella della fermezza politica.
Francesco Cossiga lo voleva sano e salvo ma mi diede carta bianca per elaborare una strategia. Il primo punto della mia strategia consisteva nel guadagnare del tempo, mantenere in vita Moro e al tempo stesso il mio compito era di impedire l'ascesa dei comunisti di Berlinguer al potere, ridurre la capacità degli infiltrati nei Servizi e immobilizzare la famiglia Moro nelle trattative. Cossiga non gestiva interamente la strategia che volevo sviluppare.
Tutto il sistema italiano era inaffidabile. Negli incontri al vertice, avevo di fronte quella che mi veniva presentata come l'elite dirigente, dei dinosauri dell'epoca mussoliniana e i loro giovani cloni. Erano soprattutto i membri dei Servizi. Anche i Servizi Segreti del Vaticano mi avevano detto di fare molta attenzione. Gli stessi Servizi Segreti del Vaticano ci avevano aiutato molto a capire come le Br si erano infiltrate nello Stato. Fra gli altri, i simpatizzanti di estrema sinistra comprendevano anche i figli di Bettino Craxi e una delle figlie di Moro».
Pieczenik, continua a raccontare anche nel libro dal titolo “Noi abbiamo ucciso Aldo Moro” scritto con Emmanuel Amara, che sta per uscire in Francia presso l'editore Patrick Robin, decise la strategia per risolvere a modo suo il caso Moro. «Lessi le molte lettere di Moro e i comunicati dei terroristi. Vidi che Moro era angosciato e stava facendo rivelazioni che potevano essere lesive per l'Alleanza Atlantica. Decisi allora che doveva prevalere la Ragione di Stato anche a scapito della sua vita. Mi resi conto così che bisognava cambiare le carte in tavola e tendere una trappola alle Br. Finsi di trattare.
Decidemmo quindi, d'accordo con Cossiga, che era il momento di mettere in pratica una operazione psicologica e facemmo uscire così il falso comunicato della morte di Aldo Moro con la possibilità di ritrovamento del suo corpo nel lago della Duchessa. Fu per loro un colpo mortale perché non capirono più nulla e furono spinti così all'autodistruzione. Uccidendo Moro persero la battaglia. Se lo avessero liberato avrebbero vinto. Cossiga ha approvato la quasi totalità delle mie scelte e delle mie proposte e faceva il tramite con Andreotti».
Il senatore Sergio Flamigni considera la presenza di Pieczenik di fondamentale importanza per l'esito avuto da tutta la vicenda Moro, identico interesse lo ha sempre dimostrato anche la magistratura italiana che si era interessata della questione. Uno di quei giudici, Rosario Priore, ci ha ricordato come a più riprese anche la Commissione Stragi presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino, abbia chiesto la sua testimonianza che però a suo tempo, all'ultimo minuto, ha sempre rifiutato. Rosario Priore però ricorda anche come quei Comitati fossero formati da esperti che in seguito si rilevarono essere «antenne» di servizi di Intelligenza di molte potenze straniere.
«Sono stato io - continua Pieczenik - a decidere che il prezzo da pagare era la vita di Moro. La mia ricetta per deviare la decisione delle Br era di gestire un rapporto di forza crescente e di illusione di negoziazione. Per ottenere i nostri risultati avevo preso psicologicamente la gestione di tutti i Comitati dicendo a tutti che ero l'unico che non aveva tradito Moro per il semplice fatto di non averlo mai conosciuto. Un giorno chiesi a Cossiga, guardandolo negli occhi se mi potevo fidare di lui. Lui rispose francamente : «Lei non può»…
Presi in mano la situazione e decisi clinicamente come gestire l'esito finale delle Br, uno scambio mortale in termini di stabilità per il Paese e per i suoi alleati. Cossiga era sempre informato sulla mia strategia e non poteva fare altro che accettare. Le Br invece potevano fermarmi in un attimo ma non hanno saputo farlo o voluto, questo non lo so. Avrebbero potuto concludere una trattativa con lo Stato, ottenendo delle pene ridotte liberando Moro ma erano troppo legati alla loro logica terrorista, in cui si preferisce essere più terroristi del terrorismo di Stato che io così bene conosco».
Cossiga vuole ribadire come le affermazioni attuali di Pieczenik non siano coerenti rispetto al suo atteggiamento di un tempo. Dopo aver realizzato il suo piano, Steve Pieczenik, in gran silenzio, come era venuto, se ne ritorna negli Usa. Più volte richiesta la sua testimonianza alle varie Commissioni parlamentari sul sequestro Moro, non si è mai presentato.

(Marco Dolcetta)

Gli ultimi giorni di Moro

Vi segnalo il link di una trsmissione svizzera (Falò) che nei giorni scorsi si è occupata dell'affaire Moro ricostruendo quei tragici 55 giorni anche con una intervista all'agente CIA Steve Pieczenik inviato dal presidente Carter.

http://www.rtsi.ch/trasm/falo/welcome.cfm?idg=0&ids=988&idc=18803


05.04.07 - Gli ultimi giorni di Aldo Moro
di Arnaud Hamelin ed Emmanuel Amara

È stato giusto trattare con i talebani per liberare il giornalista Mastrogiacomo? Quanto vale la vita di un singolo uomo di fronte alla ragione di stato? In Italia la polemica di questi giorni ha riaperto la ferita del caso Moro. Era il 16 marzo 1978. Le brigate rosse rapivano Aldo Moro e trucidavano la sua scorta. Sono trascorsi esattamente 29 anni da allora ma tutta la verità su quel rapimento e sulla morte del presidente della Democrazia Cristiana non è ancora stata scoperta. Troppi protagonisti di quella vicenda non hanno ancora parlato o hanno detto solo una parte di quello che sanno. In un documentario inchiesta di grande intensità Falò ricostruisce quei 55 giorni attraverso testimonianze toccanti e per la prima volta anche dell’agente della CIA che il presidente Carter inviò in Italia per proteggere gli interessi americani in una crisi senza precedenti. Aldo Moro fu vittima di calcoli politici e strategici giudicati più importanti della vita di un uomo? I retroscena di una decisione che segna ancora la storia dell’Italia a 30 anni di distanza.

Libri sul caso Moro

Visegnalo alcuni libri recenti


Il libro nero delle Brigate Rosse
Edito da Newton Compton, 2007
di Pino Casamassima

dalla quarta di copertina:

'Come potevano essere così sicure le BR che in quel giorno, a quell'ora e in quel momento, mio marito sarebbe passato da via Fani?": una domanda che Eleonora Moro pone più volte nei tribunali e nelle commissioni parlamentari d'inchiesta, ribadendo che il percorso automobilistico veniva stabilito giorno per giorno. Una domanda alla quale le BR, per bocca di diversi esponenti, anche antagonisti fra loro, hanno dato risposta sgombrando il campo da ogni illazione: quell'iniziale tratto di strada, il corteo delle vetture avrebbe dovuto percorrerlo comunque. Come hanno dato concorde risposta pure su tanti altri punti "inquietanti", compresa quella via Gradoli entrata nella mitologia del caso Moro. Possibile che si siano messi tutti d'accordo, seppur sentiti separatamente, e non solo divisi, ma addirittura "l'un contro l'altro armati"? Seguendo l'iter cronologico delle Brigate Rosse, che agli inizi furono sottovalutate e sbeffeggiate per avere identificato come madre di tutti i mali quel SIM (Sistema Imperialista delle Multinazionali) la cui esistenza è stata accertata solo di recente dai serivizi segreti, questo libro, oltre a riportare documenti, atti parlamentari, giudiziari, giornalistici, unitamente alle testimonianze dei protagonisti, contestualizza gli avvenimenti, daI 1970 fino alla sparatoria su un treno nel 2003 ad opera delle cosiddette nuove Brigate Rosse, responsabili degli omicidi D'Antona e Biagi, restituendo il clima politico, sociale, economico e culturale di trent'anni di storia.


Il caso Moro. Una tragedia repubblicana
Edito da Il Mulino, 2005
di Agostino Giovagnoli

Il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro, nella primavera del 1978, costituiscono uno degli eventi più traumatici nella storia dell'Italia repubblicana. Le diverse ricostruzioni che hanno cercato di far luce sulla vicenda si sono in larga parte concentrate sui "misteri", veri o presunti, sui retroscena, sulla meccanica dei fatti. Il libro di Giovagnoli apre ora una prospettiva diversa e nuova: non più il caso Moro come fatto criminale da indagare alla ricerca di chissà quali rivelazioni, ma il caso Moro come tragedia morale e politica. Fondandosi su un'ampia messe di testimonianze e materiali inediti (come i verbali delle riunioni interne della Dc e del Pci), Giovagnoli ripercorre il modo in cui governo e partiti, stampa e opinione pubblica affrontarono i dilemmi non solo politici del caso: le alternative della trattativa e della fermezza, l'atteggiamento verso le Brigate Rosse, la ricerca di possibili mediazioni, il ruolo della Chiesa. In questa luce, il caso Moro appare come un drammatico passaggio attraverso cui la società italiana ha respinto il terrorismo e superato la crisi degli anni settanta, mediante una vasta mobilitazione e superato la crisi degli anni sessanta, mediante una vasta mobilitazione etico-politica che ha segnato il massimo avvicinamento tra Pci e Dc dopo il 1947 ma anche la premessa di una nuova divaricazione tra i due maggiori partiti lontani.


1978. Moro, la Dc, il terrorismo
Edito da Morcelliana, 2006
di Corrado Belci, Guido Bodrato

Sugli "anni di piombo" e i movimenti suscitati dalla contestazione studentesca del ’68, e diffusisi dalle università alle fabbriche raggiungendo il loro culmine nelle mobilitazioni del ’77, molto si è scritto e a distanza di cinque lustri si continua a scrivere. Del tutto nuova è la prospettiva da cui si parla in queste pagine: una riflessione a due voci che riporta gli avvenimenti della strage di via Fani e dell’assassinio di Aldo Moro "filmati" dall’interno della segreteria Dc. Eventi tragici che rientrano nel quadro di un’Italia minacciata dallo stragismo nero e dal terrorismo rosso, mentre in Europa si consumava la dissoluzione del regime sovietico. Tuttavia il movimento delle Brigate Rosse non può essere ridotto a mero terrorismo: ben più ampio e complesso fu il fenomeno che da anni stava attraversando la vita politica del Paese, che già precedentemente aveva colpito e che di nuovo sarebbe tornato a colpire in seguito. Questo libro offre un’interpretazione del sequestro e delitto Moro come esito di un processo che aveva dato segnali premonitori, e che tuttavia forse fu in origine sottovalutato dalle stesse forze politiche. Uno sguardo inedito non da storici ma da protagonisti, collaboratori stretti di Zaccagnini, sugli avvenimenti che condussero alla tragedia, e anche un’analisi che getta nuova luce sull’ipotesi di una contrapposizione netta tra linea della "fermezza" e della "trattativa". Questo significa anche approfondire dall’interno gli equilibri e le tensioni della Dc e la politica di continuazione della linea Moro: sostituire il confronto politico allo scontro ideologico, dando inizio a un processo che potesse portare alla democrazia compiuta.

16 marzo 1978: una tragedia democratica

Un altro anniversario di quel tragico 16 marzo con il rapimento di Aldo Moro e l'uccisione degli uomini della scorta. Mi sono venute in mente le cose scritte da Pasolini qualche anno prima ...


Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere).

Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.

Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.

Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).

Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e, in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum.

Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine ai criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista).

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killers e sicari.

Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.

Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il "progetto di romanzo" sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti.

Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile...

Dal "Corriere della sera" del 14 novembre 1974 col titolo
"Che cos'è questo golpe?"

Itinerari di cultura giuridica e politica

Da qualche giorno è in libreria il volume Itinerari di cultura giuridica e politica. Omaggio a Francesco Tritto, a cura di M. Sirimarco, Aracne, Roma. Dalla quarta di copertina: Questa raccolta di scritti rappresenta una nuova tappa di un itinerario di ricerca, iniziato con la pubblicazione di un altro lavoro collettaneo, Cattolici, diritto e politica (Aracne, 2004),che si propone di studiare il contributo dato dalla “cultura cattolica” alla riflessione giuridica, politica ed economica del nostro paese in un momento storico in cui si è più portati sbrigativamente a dimenticare o a marginalizzare questo apporto ritenuto invece essenziale nella prospettiva della costruzione della epubblica, dello sviluppo del pensiero europeista, della configurazione di un ordinamento giuridico interno e internazionale fondato sulla dignità della persona e sulla pace, della individuazione dei segni della crisi delle nostre istituzioni e del mondo contemporaneo in generale. Mario Sirimarco è ricercatore in Filosofia del diritto presso l’Università di Teramo dove insegna Sociologia del diritto. È docente di Informatica giuridica presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Tra le sue pubblicazioni: Il diritto all’ambiente (Giappichelli, Torino 1999); Vezio Crisafulli. Ai confini tra diritto e politica, (ESI, Napoli 2003); L’armonia perduta (Aracne,Roma 2005).

INDICE DEL VOLUME:

- M. SIRIMARCO, Il diritto penale dal volto umano. Ricordando Francesco Tritto allievo di Aldo Moro;
- P. ACANFORA, Il mito dello Stato nuovo in Giuseppe Dossetti;
- G. CASALE, Felice Battaglia. Il valore nella possibilità;
- G. FRANCHI, Cultura storia e società nel pensiero di Dempf;
- A. FRUCI, Luigi Sturzo e il problema della guerra;
- M.C. IVALDI, Schuman e la costruzione dell’Europa;
- S. MISIANI, Prometeo e Orfeo. Comunicazione d’impresa e legittimazione del benessere nell’Italia dell’ENI di Enrico Mattei;
- A. ROMANO, Sulla giustizia tributaria in Ezio Vanoni;
- T. SERRA, La lezione di Costantino Mortati di fronte alla trasformazione e alla crisi della democrazia;
- M. TRINGALI, Felice Balbo e Augusto Del Noce;
- C. VECCHIET, Contributo ad un’attualizzazione del pensiero di Rosmini.

Colloquio con Cossiga

Quando la Storia non combacia con le proprie scelte ideologiche si esercita la fantasia e si ha quella specifica forma di storia che si chiama dietrologia. Moro è stato ucciso dalle Brigate Rosse e le Brigate Rosse sono un fatto tutto italiano e, come dice giustamente quella gran signora di Rossana Rossanda, un fatto tutto interno alla sinistra italiana e alla storia della Resistenza. Prima di fare il colpo, con quella potenza geometrica di fuoco, i brigatisti si addestrarono. Probabilmente le armi che avevano erano state fornite dall'Olp. Qual è il suo ricordo di quella mattina? Io abitavo allora a via Cadlolo, quasi di fronte all'Hotel Hilton, e uscivo molto presto la mattina. Mi fermavo a un'edicola a guardare le riviste che non mi compravano, che erano quelle di elettronica. Lì mi raggiunse il caposcorta, che mi disse che mi cercava il capo della polizia. Io andai alla macchina e il capo della polizia mi disse: "hanno annientato la scorta di Moro. Lui non si sa. Forse l'hanno ucciso, forse l'hanno ferito, forse è al Policlinico Gemelli, forse è morto". Io feci avviare la sirena e andai alla Presidenza del Consiglio. Era il giorno in cui il governo si doveva presentare alle Camere, con Enrico Berlinguer che voleva informare Andreotti che non avrebbe più votato il suo governo perché aveva messo degli uomini che rappresentavano per lui simboli negativi. Erano nomi che Moro aveva imposto, uomini della destra e del centro-destra della Dc. Isituzioni e sistema politico sembrarono del tutto impreparati ad una notizia del genere. O no? Anzitutto erano stati demoliti i servizi di informazione e di sicurezza con due grandi operazioni di disinformazione del Kgb. Operazioni che avevano come obiettivo quello di scompaginare i servizi segreti e quella forza di polizia che loro consideravano più pericolosa, e cioè i Carabinieri. La prima è il Piano Solo. I giornalisti che fecero la campagna non lo sapevano, ma il boccone avvelenato, per varie tappe, partì dal Kgb. La seconda è la P2. Poi vi fu un terzo tentativo di disinformazione, pensato contro Berlinguer. Fu quello della compravendita dei terreni di famiglia, ma fallì. Allora io dissi: "Mio Dio, se anche il Kgb sbaglia siamo fregati". Quale fu a suo giudizio il legame tra Br e Mosca? Alcuni parlano delle Br strumentalizzate dall'Unione Sovietica che non voleva il compromesso storico. Non è vero. L'Unione Sovietica voleva il compromesso storico, perché era comunque un modo di attenuare alcuni aspetti della nostra politica atlantica. Enrico Berlinguer, dice a Pansa, alla vigilia del '76:"se andremo al potere manterremo la nostra appartenenza alla Nato, perché tra l'altro la Nato è un ombrello che garantisce anche la nostra indipendenza". Il marxista-leninista Enrico Berlinguer, non stalinista, mai avrebbe reso una simile intervista se Mosca non gli avesse detto: "falla pure, pensa a vincere e basta". Poi, Aldo Moro è uno dei fondatori di Gladio... Quindi? Aldo Moro era un uomo abile, ma Stay Behind è stata fondata per volontà di Moro, di Taviani, di Martino e con l'aiuto tecnologico di Enrico Mattei. Comunque, io ho preso un pugno in faccia in vita mia alla Camera. Da chi? Da Pajetta. Quando? Quando Moro fece il discorso in difesa dell'intervento americano nel Vietnam. Aldo Moro era quindi un uomo politico italiano e occidentale senza se e senza ma? Senza se e senza ma. Capiva, però, che in questo Paese non si sarebbe potuto governare a lungo senza trovare un accordo con i comunisti. L'accordo che De Gasperi aveva già trovato. De Gasperi non aveva già stretto un accordo con Togliatti? E la Costituzione italiana cos'è? Un patto tra le due forze. Nel circuito dei grandi protagonisti politico-istituzionali della vita italiana del dopoguerra, il posto di Aldo Moro qual è? Gli uomini di Stato italiani sono stati Cavour, che non parlava l'italiano bene, pensava in inglese e scriveva in francese. Il secondo è stato Giolitti, che ha fatto l'Italia moderna. Poi Mussolini, anche se io sono stato educato a casa mia a pane, latte, antifascismo e repubblicanesimo. E poi De Gasperi. Sarebbe stato Togliatti un grande uomo di Stato. Il più grande uomo di governo dopo Giolitti e Mussolini fu Andreotti; il più grande leader politico Aldo Moro. Ma per liberare Aldo Moro fu fatto, dal punto di vista delle indagini, tutto il possibile? Tutto il possibile, ma eravamo troppo deboli. Una mia frase tratta da un'intervista rilasciata al suo collega Aldo Cazzullo è stata equivocata. Non è vero che il capo del commando mi ha detto che mille persone conoscevano il nascondiglio di Aldo Moro. Lui mi disse che più di mille persone, anche sindacalisti del Pci, ci avrebbero potuto indicare nomi, cognomi e abitazioni dei brigatisti rossi. Il Partito Comunista è diventato un partito di Stato, io ho collaborato con esso, chiamo Massimo D'Alema "Il meglio figo del bigoncio". Ma, anche per come noi li abbiamo trattati nei primi vent'anni, l'antipatia per i Servizi e per le forze di polizia gli è rimasta. Hanno cancellato Ugo Pecchioli. Per revocarlo hanno chiamato me. Hanno cancellato Rossa, come è raccontato nel libro della figlia. Perché, in fondo, per un vero militante comunista, un compagno, anche se sbaglia come i brigatisti, come diceva Rossana Rossanda, non si tradisce. Se guardiamo invece ai 55 giorni dal punto di vista politico e della gestione che i vertici istituzionali fecero nel caso, qui è evidente che la vicenda si complica, cioè liberare Moro significava accettare le condizioni proposte dalle Brigate Rosse... La condizione era una sola: non la liberazione dei prigionieri, né tantomeno come credeva ingenuamente il Vaticano il denaro. Era il riconoscimento politico in modo da aggirare il Partito comunista imborghesito di Berliguer. C'era qualcuno favorevole a questo riconoscimento? Si nascondevano sotto lo scambio dei prigionieri nelle trattative. E poi c'era chi voleva far saltare Andreotti. Ma nei 55 giorni, a suo giudizio, si arrivò vicini a liberare Moro? No. Il loro leader mi disse che avevamo sbagliato tutto, che avremmo dovuto usare i vigili urbani, non le forze speciali. Però loro si accorsero che noi stavamo per arrivare perché alla fine su mia iniziativa dividemmo la città di Roma in tanti quadratini. Questo a suo giudizio indusse le Brigate Rosse ad accelerare la conclusione del processo e ad uccidere Moro? Sì. Guardiamo alla vicenda nella sua gestione politico e istituzionale. Poteva andare diversamente? Quando io andai a trovare questi signori in carcere, gli chiesi come mai non avevano capito che loro avevano vinto. E gli dissi che non avrebbero vinto ma stravinto, se avessero fatto il processo a Moro, lo avessero condannato a morte, e dopo che Paolo VI ne aveva chiesto la liberazione, loro avessero detto: "In omaggio a Paolo VI che ci ha riconosciuto, lo liberiamo". E loro perché non lo liberarono? Perché a mio avviso loro avevano il mito della esemplarità: siamo creduti soltanto se siamo feroci, cioè il processo rivoluzionario, le purghe, la confessione. Perché secondo lei allora è così viva ancora la tesi: "Moro doveva morire"? Lei sa che per alcuni gli assassini di Aldo Moro si chiamano, Paolo VI, Giulio Andreotti, Benigno Zaccagnini e Francesco Cossiga. Comunque fino a quando lo dice la moglie e i figli capisco, sempre sono stati privati di un marito di un genitore. Ma anche per una parte della sinistra Dc, non quella di base però, non è possibile che Moro sia stato ucciso da sinistra. Moro deve essere stato ucciso da destra e dall'imperialismo americano. Lei porta ancora i segni della sofferenza di quei giorni Quando io dico che ho concorso ad ammazzarlo è vero, anche se non sono un assassino. A differenza di altri io sapevo benissimo che la linea della fermezza, salvo un miracolo, avrebbe portato alla sua morte. Lo pensava anche Andreotti? Sì. Ma che sperava più di me. E Berlinguer? Assolutamente. In una lettera indirizzata a lei Moro evoca la ragione di Stato. Scrive così:"io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato... Un momento, ecco l'inizio del riconoscimento. Lui trattava. Un processo popolare. Riconosce la legittimità popolare e democratica delle Br al processo. "Che sono in questo Stato, avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole o pericolosa in determinate occasioni", Ecco, scrive Moro "il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurli a salvarli è inammissibile". Esatto. Lui era un cattolico sociale e riteneva che contassero innanzitutto la società e la persona e che lo Stato fosse una sovrastruttura tecnica. E che lo Stato non potesse essere uno Stato di cui si doveva tutelare il prestigio. È autentico il Moro che scrive così? È autentico. E cerca di trattare con le Br. Gli appelli che Moro fa alla al suo partito che effetto ebbero? Beh, alla fine ebbero effetto, tanto è vero che loro uccidono Moro il giorno in cui forse, su proposta di Fanfani, la direzione del partito avrebbe convocato il Consiglio nazionale, e il Consiglio nazionale avrebbe votato per le trattative. E poi il Partito comunista si fidava solo di Andreotti e di me. Appena uscì la prima lettera di Moro Ugo Pecchioli, venne da me e mi disse: "Che Moro esca vivo o che Moro esca morto, dopo questa lettera Moro è per noi politicamente morto. E quando Andreotti, con il mio consenso, permise alla Dc, di cercare la strada di Amnesty International, la strada della Croce Rossa e così via, vennero nel mio studio Enrico Berlinguer e Pecchioli a dire: "Adesso basta". In un'altra missiva che manda a lei, Moro entra nel merito della trattativa, addirittura indicando un Paese, l'Algeria, come possibile Paese che avrebbe potuto ospitare i terroristi di cui si chiedeva la liberazione. Questa strada fu concretamente esplorata? Fu esplorata dal ministro della Giustizia di allora, che poi divenne presidente della Corte Costituzionale, ed era favorevolissimo Giovanni Leone. In una burrascosa riunione del comitato per l'informazione e la sicurezza, fu scartata con violenza da Carlo Donat Cattin, che non pensava neanche lontanamente che il figlio fosse di Prima Linea. Trent'anni dopo. Poteva finire diversamente? Se avessimo trattato e cioè avessimo riconosciuto soggettività politica alle Br, sarebbe saltato certamente il compromesso storico, Moro sarebbe uscito e avrebbe guidato una crociata anticomunista. Però avremmo sfasciato le forze di polizia che non avrebbero più creduto al potere politico. In questo che lei dice pesa il fatto che cinque uomini della scorta erano stati uccisi? Certo. E che la moglie di uno di questi aveva minacciato di darsi fuoco davanti a piazza del Gesù se noi avessimo fatto le trattative. L'uccisione di Moro ha cambiato la storia d'Italia? L'ha cambiata perché ha interrotto il compromesso storico. Perché Berlinguer credeva non alla Dc ma solo ad Aldo Moro. Dopo che fu ucciso Moro lui perse le amministrative, vinte dalla Dc perché era il partito del martire e perché nel immaginario collettivo le Br non erano verdi o bianche, erano rosse. E questa è l'influenza più grande? Sì. E lì Berlinguer compì forse due errori: aver fatto il compromesso storico troppo in fretta e averlo finito troppo in fretta. Dove è continuato il suo dialogo con Moro in questi trent'anni? In chiesa. Solo in chiesa.

da "Il Tempo" del 10 marzo 2008 - a cura di Roberto Arditi