Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

mercoledì 28 maggio 2008

"Lettere dalla prigione" a cura di Miguel Gotor


Ricevo e pubblico volentieri questa recensione di Annalisa Baldassaree al bel libro curato da Miguel Gotor.

Edito da Einaudi, il libro è curato da Miguel Gotor, giovane ricercatore di Storia Moderna presso l’Università di Torino.
Proprio in questi giorni (il 9 Maggio, per la precisione) ricorre il trentennale della barbara uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, tragico epilogo di un incubo collettivo, ma prima ancora e soprattutto personale, iniziato 55 lunghi ed interminabili giorni prima.
La celebrazione di questo anniversario non sembra preannunciarsi tanto diversa dalle precedenti, se non per quanto concerne la novità rappresentata dalla notizia della possibilità, a partire dal 9 maggio 2008, per ogni soggetto interessato, di accedere a tutti i documenti relativi al caso Moro, fino a quella data coperti da Segreto di Stato.
Trent’anni sono un tempo oggettivamente lungo, eppure cinque processi e due Commissioni Parlamentari d’Inchiesta non sono serviti a chiarire i molti lati oscuri della vicenda, che pertanto rimangono purtroppo ancora tali.
Molti sono stati i fattori e gli elementi che hanno concorso a rendere particolarmente nebulosa la storia del sequestro, contribuendo di conseguenza alla moltiplicazione dei misteri e all’infittimento di una tragica trama della vicenda, per certi versi non chiara, né lineare.
Il libro risponde, secondo le intenzioni dell’autore, al proposito di fornire ai lettori un’edizione dell’epistolario di Moro, documentata dagli originali dei manoscritti e dalle fotocopie degli stessi, la quale consenta non solo di ricostruire lo snodarsi degli sviluppi del sequestro, ma anche la figura storica del protagonista, per restituire ad essa la dignità morale e l’identità negate, per recuperare l’elevatezza del suo messaggio politico e civile ed infine, soprattutto per ricostruire le parole effettivamente scritte da Moro nel corso dei 55 giorni di prigionia e durante la sua drammaticamente lucida agonia.
Gotor avverte la necessità di definire una verità storica sul caso, la quale sia finalmente credibile, nonostante molti dei protagonisti e testimoni di allora, oggi abbiano ancora interesse, per molteplici ragioni, a far passare sotto silenzio ogni tentativo di ricostruzione della vicenda.
Indifferenza e rimozione, solitudine e sgomento… Questo si coglie e si avverte dalla lettura della prima parte del libro, che è interamente dedicata alla trascrizione dell’epistolario moroteo. In totale gli scritti sono 97 e sono costituiti da lettere e messaggi rivolti ai familiari, ai vertici politici, ai collaboratori, al Santo Padre, all’allieva Maria Luisa Familiari (la quale ha funto da tramite per la consegna di alcune lettere); ma sono riportati dall’ autore anche dei brevi biglietti destinati ai parenti (la moglie Eleonora in primis) e le plurime versioni dei testamenti redatte del prigioniero e mai spedite a destinazione dai brigatisti.
L’autore precisa di avere incentrato l’attenzione su questa che è solo una parte degli ultimi scritti di Moro, evidenziando non solo l’estrema importanza, ma anche il pesante, nonché inevitabile condizionamento esercitato da essa sulle trattative, sull’evoluzione e sulla tragica fine del sequestro.
Le lettere, infatti, sono uno strumento di pregnante rilevanza, in quanto permettono di gettare luce (e di comprendere) sulla tattica usata dai brigatisti durante la detenzione di Moro, che era imperniata sulla raffinata perfidia censoria, in base alla quale sono i brigatisti che scelgono e decidono quali lettere recapitare e quali, invece, censurare per motivi di propaganda, convenienza ed opportunità politica.
Se la finalità perseguita dalle Brigate Rosse è quella di destabilizzare l’ambiente politico, spezzare il vincolo fiduciario del prigioniero col partito della DC, con le forze dell’ordine e con le istituzioni in generale e soprattutto distruggere la rispettabilità, l’onorabilità umana e politica di Moro, esasperandone il turbamento psicologico ed il senso d’abbandono, la vittima, invece, nonostante tutto, cerca e tenta con tutte le forze di resistere fino all’ultimo.
Il suo atteggiamento, nel corso di quel lungo periodo, oscilla tra l’accettazione di una sorte incomprensibilmente ingiusta, costellata da angoscia, stupore, amarezza per l’abbandono degli amici di lunga data (l’allora Ministro dell’Interno Cossiga ed il Segretario della DC Zaccagnini) ed un sentimento di rabbia, di risentimento, che emergono, con particolare evidenza nell’ultima lettera a Zaccagnini.
Moro scrive questa lettera nella convinzione di essere ad un passo dalla libertà (perché questo le BR gli fanno credere per almeno due volte durante la prigionia); i toni usati nel rivolgersi al partito nel suo complesso sono estremamente duri: il Presidente deplora la linea dura adottata da quest’ultimo, la chiusura ad ogni forma di trattativa (sebbene in realtà ben due trattative segrete fossero state avviate rispettivamente dal Vaticano e dai Socialisti di Craxi), il meschino tentativo di affermare dinanzi all’opinione pubblica l’inattendibilità delle sue parole, nonché la sua presunta incapacità d’ intendere e volere e tutto ciò lo spinge e determina a rassegnare le sue dimissioni irrevocabili dalla DC.
Moro vive il problema di usare una scrittura che risulti “muta per la maggioranza (ossia le BR sempre attente a censurare quanto di sconveniente possa risultare per i loro interessi, o quanto possa rivelare lo sporco doppio gioco ai danni del prigioniero - si pensi alla lettera recapitata a Cossiga con la promessa di mantenerla riservata, ed invece divulgata dai brigatisti, violando in tal modo la promessa fatta a Moro) ed aperta per la minoranza” (ossia i destinatari delle missive).
Gotor sottolinea in più punti del suo saggio collocato nella seconda parte del testo ed intitolato “Le possibilità dell’ uso del discorso nel cuore del terrore” come l’epistolario sia la dimostrazione e la prova delle potenzialità e delle possibilità dell’uso del discorso, inteso come tecnica di comunicazione, all’interno di un contesto tragico, anomalo e disumano, quale quello della prigionia politica; la scrittura della vittima è sospesa tra la vita e la morte, tra la speranza e la rassegnazione.
La scrittura costituisce un mezzo per resistere all’agonia, l’unico appiglio per non lasciarsi andare, per continuare a sperare, anche se a mantenere viva la speranza in Moro è innanzitutto e soprattutto la fede incrollabile in Dio.
In mezzo alle incertezze che ancora costellano il caso, emerge nitido il fatto che gli ostaggi delle BR siano due: Moro ed i suoi scritti e che entrambi subiscano un’opera raffinata di manipolazione.
Il problema di fondo, tuttavia, è rappresentato dal fatto che le carte rinvenute sono incomplete e, lacuna ancor più grave e misteriosa, gli originali non sono mai stati ritrovati.
A tal proposito, i brigatisti sono risultati evasivi e di debole memoria… ma non meno si sono rivelati tali anche gli uomini politici di spicco dell’Italia di fine anni Settanta.
Secondo la ricostruzione storica di Gotor, obiettivo del Governo è quello di depotenziare il ricatto brigatista, attraverso il tentativo di sminuire il valore politico dell’ostaggio e di neutralizzare le parole del sequestrato, attuando una controguerriglia psicologica; quest’ultima si basa sul controllo dei mezzi d’informazione, sull’affermazione di un Moro fuori di sé ed infine sul sostenere pubblicamente che egli non sia in possesso di informazioni strategiche in materia militare.
Proprio per questa strategia, durante il sequestro, le lettere non sono state credute pubblicamente.
In realtà l’autore analizza nel saggio in modo particolare le scelte compiute dalla classe dirigente di allora riguardo agli scritti rinvenuti nell’ottobre del 1978 (dattiloscritti) e nello stesso mese dell’anno 1990 (fotocopie autografe di manoscritti).
Gotor sostiene che dopo la morte di Moro si apre una seconda fase della vicenda relativa alla sorte delle sue lettere, in quanto per dodici lunghi anni i testi rinvenuti nel 1978 non sono stati ritenuti autentici, né attendibili, in quanto dattiloscritti e non sottoscritti dal prigioniero.
Quando nel 1990, durante la ristrutturazione del covo ormai dissequestrato di via Monte Nevoso, un muratore rinviene in un tramezzo una cartella contenente fotocopie di manoscritti, cessa per tutti quei politici (che in precedenza avevano negato l’autenticità delle lettere di Moro) la possibilità di continuare ad ostentare sufficiente indifferenza .
Secondo Gotor, è stato proprio a partire dal momento di questo secondo, inaspettato ritrovamento che il Governo ha cercato di recuperare gli originali delle lettere, avvalendosi della professionalità del Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Per trent’anni si è discusso del ruolo delle carte Moro e su quanto abbiano condizionato la dinamica della vicenda, su quanto riflettano e quanto siano permeate dal pensiero giuridico di Moro.
Nonostante lo stato di costrizione del loro autore, in esse sembra si ritrovi il Moro degli scritti giovanili, il Moro cattolico, il Moro sostenitore del personalismo giuridico, che impone l’affermazione del primato dell’individuo sullo Stato, del valore della vita umana “stella polare del sistema” .
Del libro è apprezzabile innanzitutto la scelta di presentare e disporre le lettere in ordine cronologico, perché in fondo per poter comprendere un fenomeno storico, sia appartenente ad un passato relativamente recente che remoto, l’unico metodo di ricerca appropriato è quello che si basa sulla ricerca ed analisi dei documenti (gli unici che possano contenere dati certi e fondati), per quanto impegnativa e noiosa essa possa risultare.
In secondo luogo è davvero condivisibile l’impianto del testo, la scelta di lasciar che siano le parole del protagonista a parlare, a raccontare pensieri, parole, riflessioni e stati d’animo.
Moro emerge in tutta la sua umanità, in tutta la sua grandezza di uomo politico, ma anche e soprattutto di UOMO, con le sua umane paure, le sue umane debolezze, i suoi umani amori, la sua umana rabbia ed il suo disperato, accorato, ma rassegnato dolore…questo sì DISUMANO, tanto quanto la spietatezza di chi ha avuto il barbaro coraggio di strapparlo alla vita in nome di un meschino sacrificio, in nome della causa di una fantomatica ed utopica RIVOLUZIONE.
Lettere della prigionia è un libro che non impone una versione su tutte le altre, non sposa teorie di complotti internazionali, che tanto potrebbero rendere avvincente il racconto, o aiutare la tiratura di un testo… si limita a riconoscere che il fenomeno delle BR è essenzialmente un fenomeno tutto italiano, che la presunta pista di un mandante internazionale non è suffragata dal sostegno di documenti storici e quindi è e rimane pura supposizione.
…È un testo che lascia al lettore la possibilità di esercitare le proprie personali riflessioni ed il senso critico sul materiale documentale che offre in abbondanza.

Annalisa Baldassarre

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