Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

domenica 29 giugno 2008

CARLOS: COSI' SALTO' L'ULTIMO TENTATIVO DI SALVARE ALDO MORO

Un ultimo, estremo tentativo di salvare Aldo Moro venne tentato da una fazione del Sismi che preparo', con l'aiuto dei palestinesi dell'Fplp (l'ala marxista della resistenza palestinese vicina alla RAF) di portare dei brigatisti italiani dal carcere in un Paese arabo . A far da garanti c'erano proprio dei palestinesi che agivano sotto la protezione dell'ala del Sismi che faceva capo al colonnello Stefano Giovannone, che era il capo centro a Beirut e uomo notoriamente vicino a Moro che lo invoca in una delle sue lettere. Probabilmente per una indiscrezione partita da un uomo dell'Olp, quell'ultimo tentativo venne bloccato e l'aereo, un executive dei servizi, staziono' invano sulla pista di Beirut l'8 e il 9 di maggio.
A 30 anni dalla morte del Presidente Dc a fare queste rivelazioni, confermando precedenti allusioni e', in una intervista esclusiva all'Ansa, Carlos , Ilich Ramirez Sanchez,''lo sciacallo''. Carlos non aveva mai chiarito l'esatta dinamica di questo ultimo tentativo facendo sorgere l'ipotesi che si riferisse ad uno scambio - che ora smentisce- con 4 capi della RAF (le Br tedesche) che erano nella mani del generale jugoslavo Tito e che vennero interrogati dall'Ammiraglio Martini proprio nella tarda mattinata del 9 maggio, quando pero' Moro era gia' morto. L'intervista e' stata realizzata grazie alla collaborazione dell'avvocato difensore di Carlos, Sandro Clementi e della signora Sophie Blanco che hanno incontrato Carlos nel carcere di Poissy nei giorni scorsi.

-D: L'Ammiraglio Fulvio Martini, che nel 1978 era vice responsabile del servizio segreto italiano, ha raccontato che la mattina del 9 maggio del 1978 si reco' in missione in Jugoslavia- per interrogare gli esponenti della RAF che erano in mano a Tito. Questi affermavano di aver avuto rapporti con le Br a Milano. Si trattava dell'allora vertice della RAF Gli uomini della Raf in mano a Tito dovevano essere scambiati proprio il 9 maggio con il Presidente della Dc che invece venne ucciso proprio quel giorno?
-R: Non e' vero. Le Br non avrebbero potuto essere oggetto di uno scambio come tanto meno i tedeschi in cambio della vita di Moro. Lo scambio avvenuto tra i servizi jugoslavi e i tedeschi del BND ( servizi segreti di Bonn) e' stato effettuato in cambio dei membri del gruppo Hoffman catturati in Jugoslavia e consegnati ai tedeschi.

-D: A fine marzo del 1978 le Br presero contatto con uomini di Chiesa. Volevano arrivare ad un confronto con uomini dello Stato per avviare una trattativa. Si individuo' anche il mediatore, un uomo politico vicino all'allora ministro dell'Interno, Francesco Cossiga che ha recentemente detto che quell'incontro avvenne effettivamente e proprio a Milano. Lei ha parlato di rivoluzionari stranieri che si stavano recando ad una riunione decisiva ''per stabilire un contatto con un rappresentante dello Stato'' e che sfuggirono per un soffio all'arresto. Qualcuno, con quel blitz, interruppe un canale? Si trattava degli stessi uomini della RAF che poi fuggirono in Jugoslavia?
-R: Quello che posso dire e' che vi era un contatto tra le 2 direzioni (BR - RAF) e che ci fu in quel momento un'operazione delle teste di cuoio (prima nella storia). Il Governo italiano non aveva necessita' di stabilire contatti con gruppi stranieri per liberare Moro - i compagni della RAF tornavano dalla Jugoslavia a Bagdad.

-D: Lei ha detto che c'erano ''patrioti anti-Nato, compresi molti generali, che erano partiti per aspettare il rilascio dei prigionieri e per salvare la vita di Moro e l'indipendenza dell'Italia. Invece questi patrioti, inclusi alcuni generali, furono costretti alle dimissioni e costretti ad andare in pensione. Effettivamente ci fu una vasta epurazione nei servizi segreti italiani dopo la morte di Moro. Questa fu conseguenza di quell'estremo tentativo di salvare il Presidente della Dc proprio il 9 maggio, quando Moro venne ucciso?
-R: Si', fu una conseguenza dei fascisti (Carlos li definisce Mussoliniani) che controllavano l'intelligence militare che aveva preparato operazioni per andare a prendere nelle carceri, di notte, alcuni brigatisti imprigionati. Credo che l'informazione sia arrivata ai servizi della Nato da Beirut e probabilmente per l' imprudenza di Bassam Abu Sharif (membro dell'ufficio politico dell'OLP).

-D: Quell'aereo da Beirut sarebbe volato con i capi della Raf nello Yemen del Sud, in Iraq? Moro sarebbe stato liberato?
-R: No, era a disposizione della resistenza palestinese per andare sotto la protezione dello Stato italiano (servizi militari) nel paese opportuno per organizzare il ricevimento dei brigatisti sul punto di essere sottratti dalle carceri dai servizi militari.

-D: Ai primi di maggio del 1978 il figlio di Aldo Moro, Giovanni, e la sua fidanzata chiesero ed ottennero un passaporto valido anche per lo Yemen del Sud, l'unico stato arabo marxista. Ci sono stati contatti tra lei o suoi uomini e uomini legati a Moro per arrivare a questo possibile scambio? Lei, come ha sostenuto il giudice Rosario Priore ha mai avuto contati diretti o indiretti con uomini vicini alla famiglia Moro oppure questi incontri erano stati programmati una volta che i capi della Raf fossero stati liberati?
-R: Giovanni Moro ha lui stesso dichiarato che non e' vero e Rosario Priore soffre di illusioni paranoiche e ripeto che Moro non poteva essere scambiato con nessun rivoluzionario ne' BR ne' RAF.

-D: Si sa che a contattare esponenti di Autonomia per cercare di salvare Moro fu il colonnello dei servizi italiani Giovannone, colui che attese sulla pista di Beirut . Lei ha parlato di ''contatti indiretti'' con i nostri servizi. Uno di questi fu quello che parti' da Giovannone, uomo vicino a Moro, e arrivo' a lei tramite la rete svizzera a cui il colonnello si rivolse per contattarla?
-R: I contatti ''indiretti''erano tra FPLP e Giovannone a Beirut e altri ufficiali che si recarono in visita a Beirut e separatamente vi erano contatti con le BR, con rivoluzionari europei non italiani; per ragioni di sicurezza le BR si erano ''chiuse'' nell'imminenza della tripla operazione consistente nella simultanea cattura di Moro, Agnelli e di un giudice della Corte Suprema. Le azioni dovevano svolgersi simultaneamente in Italia: a Roma…Agnelli, un'altra per strada (Non era Pirelli, ma Agnelli).

-D: Quella stessa mattina del 9 di maggio, a Milano, la Chiesa avrebbe pagato alle Br un riscatto favoloso: 50 miliardi. Era per caso una questione collegata, parallela, alla liberazione degli uomini della RAF? Moro venne ucciso anche per anticipare questi due fatti che avrebbero potuto rendere impossibile l'uccisione del prigioniero? Chi intervenne , secondo lei, italiani, stranieri o stranieri e italiani a far si che questo estremo tentativo di salvare Aldo Moro naufragasse?
-R: Per primo, sono stupito di apprendere che la Chiesa avesse quella cifra per pagare. Benche' fosse un buon cattolico (Moro), l'uomo della chiesa era Andreotti che si e' opposto al salvataggio di Moro.Il tentativo di Beirut e' stato sabotato a Milano e questo e' un dato di fatto; i sovietici avevano interesse a salvare Moro, gli yankees e gli israeliani erano contro e quindi se vi fosse stato un intervento di uno stato straniero si sarebbe trattato della Nato e non del Patto di Varsavia.

-D: Il ministro dell'Interno Francesco Cossiga ha detto anni fa di aver saputo da Markus Wolf, capo della Stasi, che Moro sarebbe stato liberato; c'era un impegno degli israeliani in tal senso. Lei cosa ne pensa?
-R: Questo e' falso, e' esattamente il contrario. Wolf era il nemico della Causa, tenente dell'EKVD (i servizi che precedettero il KGB), venne mandato come inviato della Pravda al Tribunale di Norimberga ove un aiuto-capo delle SS si presento' come testimone contro i leader nazisti per sostenere che gia' alla fine della primavera del 1944 erano stati sterminati 6 milioni di ebrei nei campi di concentramento tedeschi pur sapendo che la maggior parte degli ebrei morirono alla fine del 1944, inizio 1945. La Corte, unanime, espulse questo signore per falsa testimonianza. Wolf pero' diede questa informazione che si muto' in ''verita' evangelica'' e naturalmente la stampa yankee e sionista per una volta copio' la Pravda . Questo SS era stato raggirato da una squadra di interrogatori, tutti ufficiali ebrei-tedeschi, eccetto il sergente in capo Henry Kissinger che non era ufficiale, perche' minore di eta'. Le parole di Wolf, uno degli uomini meglio informati nel mondo sono da intendere con molta prudenza. Lo dico senza odio. I suoi ''servizi di informazione esterni'' erano uno dei migliori del mondo e benche' si fosse opposto vigorosamente alla nostra organizzazione internazionale, ha scritto nelle sue memorie che ''Carlos'' era stato il cliente piu' difficile che avessero mai avuto. Ebbe la delicatezza, un paio di anni prima di morire, di mandarmi i suoi saluti per il tramite di un giornalista.

-D: Durante il rapimento Moro venne individuata a Il Cairo una rete di rivoluzionari che facevano capo a dissidenti marxisti usciti dall'Olp, rete che aveva il suo cuore operativo in esponenti svizzeri, probabilmente gli stessi poi contatti per arrivare a lei. Questo gruppo aveva contati con le Br a Roma tramite due caselle postali. Valerio Morucci, esponente delle Br, risulta anche inserito, secondo la magistratura francese, nella sua rete Separat (Ori). Era lui il punto di congiunzione tra queste due organizzazioni? La rete Separat e gli uomini della RAF ad essa collegata furono presenti nella vicenda del rapimento Moro o comunque seguirono da vicino la preparazione e la realizzazione della operazione?
-R: Vi era, al Cairo, un gruppo di rivoluzionari diretti da Abu Nidal (Fatah), controllati dai servizi ''Mukabar'', ragione per la quale non divennero operativi. Tutto cio' che proviene dalla magistratura francese, cioe' dal giudice Bruguiere e dei suoi capi del FBI e' nullo, ne' e' la prova la decisione della ''Corte Criminale'' di Berlino, che ha assolto il mio compagno e fratello J. Weinrich, per gli stessi capi d'accusa per i quali mi vogliono giudicare in Francia. E' certo che il dossier Carlos/Bruguiere non ha nessuna base giudiziaria e i famosi archivi della Stasi ( il servizio segreto della Ddr) in mano alla giustizia tedesca non costituiscono elementi di prova contro di noi.

-D.Una sola domanda sulla strage di Bologna visti i molti riferimenti fatti da lei nel tempo e che sembrano alludere ad una ipotesi da lei mai espressa ma che potrebbe essere alla base delle sue osservazioni. Cioè agenti occidentali che fanno saltare in aria- con un piccolo ordigno- un più rilevante carico di materiale esplodente trasportato da palestinesi o uomini legati all’Fplp e alla sua rete con l’intento di far ricadere su questa ben diversa realtà politica tutta la responsabilità della strage alla stazione.
-R.L’attentato contro il popolo italiano alla stazione di Bologna “rossa”, costruita dal Duce, non ha potuto essere opera dei fascisti e ancora meno dei comunisti. Ciò è opera dei servizi yankee, dei sionisti e delle strutture della Gladio. Non abbiamo riscontrato nessun’altra spiegazione. Accusarono anche il Dottor Habbash , nostro caro Akim, che, contrariamente a molti, moriva senza tradire e rimanendo leale alla linea politica del FPLP per la liberazione della Palestina. Vi erano dei sospetti su Thomas C., nipote di un’eroe della resistenza comunista in Germania dal febbraio 1933 fino al maggio 1945, per accusarmi di una qualsiasi implicazione riguardo ad un’aggressione così barbarica contro il popolo italiano: tutto ciò è una prova che il nemico imperialista e sionista e le sue “lunghe dita” in Italia sono disperati, e vogliono nascondere una verità che li accusa

L’intervista si chiude con una domanda di Carlos e la firma apposta subito sotto:

”Perché 65 anni dopo l’invasione dell’Italia, rimangono tuttora 113 basi e strutture militari yankee nella patria di Garibaldi, di Mussolini, di Gramsci, di Togliatti e di Moro?”.

di Paolo Cucchiarelli

Poissy, giugno 2008

martedì 10 giugno 2008

IL LIBRO DI GOTOR SU MORO UN CASO DI IGIENE STORIOGRAFICA

Miguel Gotor, docente di Storia moderna all’Università di Torino, si è sempre occupato di santi, eretici e inquisitori vissuti tra il Cinque e il Seicento, concentrandosi sulle logiche che legano il culto, la devozione popolare e l’esercizio del potere. Oggi con “Lettere dalla prigionia”, edito da Einaudi, sembra essere passato ad un altro argomento, che però con il popolo, gli eretici ed inquisitori, ha molte cose in comune…

Come mai dopo che si è scritto tanto su Moro ha sentito l’esigenza di scrivere questo libro?
Uno stimolo importante è stato quello di cercare di restituire a Moro una dimensione più autentica e completa che non fosse solo ed esclusivamente legata alla sua condizione di carcerato. Moro paradossalmente è rimasto prigioniero non solo delle BR ma anche del “caso Moro” e della sua tragica fine. Un dato su tutti, sono passati 30 anni e in un Paese come l’Italia dove si biografa tutto, anche Fabrizio Corona, non esiste una biografia di Moro che racconti la sua vita a prescindere da quel tragico esito. E in questo senso mi sembrava che fosse importante, per compiere un’operazione di igiene storiografica, ripartire dai documenti e in particolare dalle lettere, anche perché questa vicenda ha ancora tanti aspetti da chiarire.

Qual è la lettera più significativa, tra quelle politiche, per capire il “caso”?
Quella a Francesco Cossiga del 29 marzo, perché è in grado di rivelare il meccanismo censorio che viene messo in atto dai brigatisti al fine di creare un’immagine distorta di Aldo Moro nell’opinione pubblica italiana. Nella lettera Moro chiedeva di avviare una trattativa che mirasse a uno scambio di prigionieri attraverso l’intermediazione del Vaticano: spiegava che doveva restare assolutamente segreta, affinché la situazione drammatica in cui si trovava potesse avere uno sbocco positivo. E invece 24 ore dopo, le BR la divulgarono facendo credere a Moro che era stato lo stesso Cossiga a renderla nota. Colsero l’occasione propagandistica e la sfruttarono per esporre al pubblico ludibrio la DC, la “cosca democristiana”. È interessante notare che allo stesso tempo quella lettera fu distribuita congiuntamente a un’altra per Nicola Rana, il collaboratore di Moro, nella quale Moro ribadiva la ragione della segretezza della missiva e stabiliva un luogo segreto in cui fosse possibile ricevere delle risposte dall’esterno per organizzare un canale di comunicazione. Il dato di fatto è che le BR tacquero sull’esistenza di questa seconda lettera.

Quale lettera invece, tra quelle famigliari, è fondamentale per capire Moro?
Nelle lettere ci sono dei passaggi di un’intensità unica che fanno di questo epistolario uno dei più belli e significativi del XX secolo, probabilmente insieme a quello di Gramsci. Tutto si gioca sui rapporti di affetto e su un interessantissimo dialogo con la fede. Una fede che si trasmette attraverso i corpi, i volti, le mani, il toccamento dei congiunti che è come se misteriosamente facessero da tramite a un dialogo con Dio. “Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali”: non c’è certezza, la sua non è una fede scontata che si appaga dei dogmi, ma è intensa perché complessa e mai banale, carica di dubbi e di umanità.

Riguardo alle missive, gli esponenti della DC e dal PCI, affermarono che erano “pilotate” e che Moro era “un altro”, “matto”: viene quindi operato un processo di disumanizzazione che di fatto sminuisce il valore dell’ostaggio. Perché le BR avallarono con i loro comportamenti questo schema, non rendendo pubbliche quelle parti del carteggio che avrebbero facilmente demolito tale strategia?
Delle 97 lettere, le missive che uscirono dalla prigione probabilmente furono 36, e di queste solo 8 furono recapitate direttamente all’Ansa e ai giornali, mentre altre 28 ai rispettivi destinatari i quali, ad eccezione di Craxi e di Giovanni Leone, decisero di mantenerle riservate. Questa azione di disinformazione del Govern, funzionale a sminuire il più possibile il valore dell’ostaggio, venne avallata dalle BR per due motivi: pubblicare le lettere avrebbe rivelato il volto di un Moro umano che ha parole di dolore e di disperazione nei confronti della scorta, e questo era dannoso per il loro progetto di destabilizzazione, e inoltre il recapito stesso li avrebbe esposti a rischi enormi. Certo è che le 8 lettere distribuite alla stampa, furono chiaramente funzionali a produrre nell’opinione pubblica l’immagine di un uomo politico cinico e indifferente, attaccato alla sua vita più che alle sorti dello Stato. Il Moro che noi ci ricordiamo in fin dei conti è il Moro di quelle 8 lettere e basta.

Dopo aver visto “Il Divo”, il Senatore Giulio Andreotti si è indignato molto soprattutto per come Sorrentino ha raccontato il “caso”.
Mi ha colpito e ho condiviso la lettera che Tullio Kezich ha scritto ad Andreotti sul “Corriere della Sera”, invitandolo a rivedere il giudizio dato a botta calda sul film. Paradossalmente sono proprio i processi che Andreotti ha subito, l’ipertrofia giudiziaria e la debolezza politica, che hanno caratterizzato gli ultimi 20 anni della storia repubblicana, a rendere impossibile un film di inchiesta su Andreotti. Sorrentino lo racconta con una maestria eccezionale: è molto efficace la rappresentazione di Moro ranicchiato in un angolo che appare di continuo e che sembra, anzi vuole, raffigurare il senso di colpa…

Cinque processi e due commissioni parlamentari di inchiesta, la vicenda giudiziaria si è esaurita?
Che ci siano ancora molte cose da chiarire lo palesano alcuni dati di fatto, come quello (da me dimostrato nel libro) che alcune lettere hanno certamente subito un processo di censura e di mutilazione, in punti molto significativi, come quando Moro parla delle borse (scomparse) o quando esprime un giudizio sul Papa, oppure il fatto che non esistano gli originali delle sue lettere. Sono dati di partenza per fondare delle interpretazioni su questa vicenda che certamente non si esaurisce nella verità giudiziaria che si è stabilita, anche perché allora i magistrati lavorarono con una conoscenza parziale delle varie realtà. Chi sostiene altrimenti, assume una posizione politica, di lotta politica: uno ne prende atto, ma le ragioni della lotta politica sono altre da quella della ricerca storica. Sono ambiti autonomi.

Con il caso Moro hanno fallito tutti?
La morte di Moro ha reso inutili tante cose, tanto è vero che oggi nessuna parte (brigatisti, DC e Stato) ha interesse a raccontare i tentativi, le azioni e gli errori che hanno prodotto un esito così tragico. Non hanno fallito tutti, ma tanti. Le BR non hanno fallito, per esempio. Non sono d’accordo con chi sostiene che con la morte di Moro abbiano subito la loro più grande sconfitta politica. Lo dicono alcuni dati quantitativi: la potenza di fuoco delle BR da dopo il sequestro all’82 è cresciuta in maniera esponenziale. Si è passati da qualche omicidio a decine e decine di attentati. Ciò vuol dire che il loro bacino di reclutamento era aumentato in modo notevole di militanti disposti a rischiare il carcere o la vita. Inoltre le BR sono riuscite in un altro straordinario successo: hanno avuto la capacità di soffiare sul fuoco dell’antipolitica, del qualunquismo e della mollezza repubblicana. Insomma sono riusciti nell’impresa di far credere a gran parte dell’opinione italiana che Moro è morto non solo perché l’anno ucciso loro, ma soprattutto perché l’hanno ucciso i partiti, le istituzioni e le congiure di palazzo… Questa è la più grande vittoria delle BR sul piano propagandistico.
L’interpretazione di coloro i quali oggi ci dicono che con la morte di Moro le BR sono state sconfitte, è l’opinione di quanti tradiscono o il loro desiderio o le loro scelte personali di allora in un giudizio collettivo che vorrebbero storico e definitivo.

di Marta Saviane

domenica 8 giugno 2008

Autobiografia di una democrazia difficile

La vicenda umana e politica di Aldo Moro, il suo dramma, prendendo a prestito le parole che egli utilizzò il 9 giugno 1973 parlando al congresso nazionale della Dc si potrebbe definire l'autobiografia di una democrazia difficile.
Aldo Moro, infatti, appartiene alla seconda generazione dei politici cattolici italiani. Quella che per vincoli generazionali non ebbe modo di conoscere la stagione liberale. Non ebbe modo neppure di partecipare a quel difficile e progressivo processo di integrazione nello Stato che culminò con il contributo che i cattolici diedero alla patria in occasione della grande guerra, e che pose le fondamenta per la successiva conciliazione tra Stato e Chiesa.
Partrecipe di quella grande esperienza che fu la Federazione Universitaria Cattolica Italiana tra le due guerre - lui presidente, Giulio Andreotti vicepresidente e monsignor Giovambattista Montini assistente spirituale -, Aldo Moro si formò in un periodo caratterizzato da una profonda crisi del liberalismo e da una sorta di pregiudiziale anti-statuale che trovava origine nel difficile rapporto tra i cattolici e la vicenda dello Stato unitario, e veniva rafforzata dalla necessità di assumere una divisa esclusivamente culturale che consentisse a quei giovani di non opporsi apertamente ma nemmeno compromettersi con il regime fascista.
Nonostante le evoluzioni e le modificazioni, questo patrimonio non sarebbe mai stato del tutto contraddetto. Esso incubò una diffidenza di lungo periodo nei confronti della statualità, che emerge ad esempio nel resoconto sommario della seduta del 20 novembre 1946 della Prima Sottocommissione dell'Assemblea Costituente, laddove Lelio Basso, La Pira, Togliatti, Dossetti e, per l'appunto, Aldo Moro, si ritrovarono nel prospettare una democrazia che si avviasse verso forme organiche, per le quali i partiti avrebbero dovuto ricoprire un ruolo addirittura sovraordinato rispetto a quello delle istituzioni dello Stato.
Ebbe però anche una coniugazione schiettamente liberale, che in un tempo di ideologie forti ed opprimenti portava a non perdere di vista il primato della persone e i limiti della politica. Scriveva Moro sulla rivista Studium nel luglio del 1945: "Vi sono nella esperienza cristiana motivi di questo senso schiettamente liberali, perché cristiana è l'ansia dell'essenziale, cristiano il rispetto religioso per tutte le espressioni della vita, guardate come manifestazioni irriducibili della persona, anche se vengono naturalmente conferite alla vita sociale.(...) Bisogna che la politica si fermi in tempo, per non guastare queste cose: bisogna che essa, riconoscendo volenterosamente i suoi limiti, lasci all'uomo il possesso esclusivo di questo suo mondo migliore, intimo ed originale. Essa è soltanto uno strumento di questa rilevazione ed è nel suo essere subordinata e pronta a servire efficacemente la totalità complessa e misteriosa della vita la sua innegabile grandezza".
Da queste opposte tensioni nasce la controversia permanente della problematica politica di Aldo Moro. Per lui lo Stato non poteva essere né un dato a priori né tantomeno una imposizione. Era un problema aperto; bisognava ricondurre ad esso tutta la linfa vitale della società, assicurando "la piena immissione della masse nella vita dello Stato: tutte presenti nell'esericizio del potere, tutte presenti nella ricchezza della vita sociale".
Questo programma, tradotto in termini costituzionali, nell'Italia dell'immediato dopoguerra significava assicurare un sistema politico ad ampia legittimazione che riuscisse a superare la peculiarità di un Paese che ospitava il partito comunista più forte dell'Europa occidentale e una destra che il passato fascista troppo recente, da solo, già bastava a delegittimare.
Aldo Moro aveva ben presenti queste difficoltà. E allo stesso modo comprese che il 1953 avrebbe costituito una svolta in grado di condizionare la politica italiana per decenni e decenni. Sul piano interno, egli difese la riforma elettorale di quell'anno, con la chiara intuizione che essa avrebbe potuto non solo rafforzare la maggioranza del tempo, ma anche accelerare la fine di quel blocco in grado di condizionare il sistema che derivava dalle particolari condizioni geopolitiche del nostro Paese.
Moro difese allora quella legge con parole che suonano oggi incredibilmente attuali: "La democrazia non è soltanto il regime della maggioranza, ma è il regime del rapporto necessario, della garanzia permanente di esistenza e di funzionalità, ciascuna nel proprio ambito, di una maggioranza e di una minoranza. (...) Bisogna, nell'ambito di un reggimento democratico, che la maggioranza possa orientare, dirigere, prendere inziative e decisioni, e che la minoranza possa con forza e sicurezza operare secondo la sua funzione di controllo, proporre delle alternative, permettere eventuali mutamenti nell'orientamento del Paese".
Quella legge, come è noto, non esplicò i suoi effetti. Si affermò così un'idea di democrazia assolutamente differente, che avrebbe prevalso fino alla fine degli anni '70, fino alla morte di Aldo Moro. E questa realtà si coniugò con una nuova fase della guerra fredda, che dopo la morte di Stalin rendeva certamente meno probabile una soluzione armata, ma che d'altra parte, dopo la rottura intervenuta tra Tito e Stalin, poneva l'Italia in un quadro geopolitico che ne richiedeva la endemica debolezza.
In tale contesto, dunque, da allora in poi Moro avrebbe dovuto sviluppare il suo programma di allargamento delle basi statuali, sfruttando le opportunità storiche e le contingenze internazionali senza per questo transigere sulla difesa di una specificità politica e culturale che si rifaceva al patrimonio del cristianesimo politico italiano.
In questa ottica va letta la sua apertura al centrosinistra. Si trattò di una scelta riluttante, di paziente ricerca di punti di convergenza riformistici che nulla davano per scontato a priori. Moro non esercitò mai una mera devoluzione di potere verso la sinistra; né il suo centrosinistra può essere descritto come una tappa di quella ricerca di equilibri più avanzati che pure nel partito cattolico trovò i suoi adepti. E solo di fronte alla crescente tensione cui fu sottoposto il sistema, in presenza di una fase di distensione internazionale che pareva destinata a durare, egli spostò la sua attenzione verso i comunisti.
Non si trattava insomma di una ulteriore apertura a sinistra, bensì di un nuovo tentativo di inlcudere quelle masse e quelle energie senza le quali tra società e Stato si sarebbe aperto uno iato ai suoi occhi troppo ampio. Moro era ben consapevole delle differenze sul terreno internazionale, sul terreno programmatico, sul terreno della cultura politica. La sua terza fase altro non era che il tentativo contingente di costruire un minimo tessuto connettivo, per poi tornarsi a dividere. Non fu mai una abdicazione nei confronti del suo patrimonio originario, e tantomeno nei confornti del suo partito.
Valgano a tal proposito le parole che Moro pronunziò in difesa della Dc il 9 marzo 1977, quando in Italia vi era chi quel partito avrebbe voluto processarlo sulle piazze: "Difendiamo dunque uniti la Democrazia cristiana […] Quello che non accettiamo è che la nostra esperienza complessiva sia bollata con un marchio di infamia in questa sorta di cattivo seguito di una campagna elettorale esasperata […] A chiunque voglia travolgere globalmente la nostra esperienza, a chiunque voglia fare un processo, morale e politico, da celebrare, come si è detto cinicamente, nelle piazze, noi rispondiamo con la più ferma reazione e con l’appello all’opinione pubblica che non ha riconosciuto in noi una colpa storica e non ha voluto che la nostra forza fosse diminuita […] Abbiamo certo commesso anche degli errori politici […] E come frutto del nostro, come si dice, regime, c’è la più alta e la più ampia esperienza di libertà che l’Italia abbia mai vissuto nella sua storia; un’esperienza di libertà capace di comprendere e valorizzare, sempre che non si ricorra alla violenza, qualsiasi fermento critico, qualsiasi vitale ragione di contestazione, i quali possano fare nuova e vera la società".
Sia prova di tutto ciò il fatto che quando il 16 marzo Moro fu rapito prima di recarsi alla Camera dei Deputati per il dibattito sulla fiducia al primo governo che avrebbe dischiuso le porte della maggioranza al Pci, i problemi che riguardavano la composizione di quell'esecutivo erano tutt'altro che risolti, proprio per la caparbietà con cui Aldo Moro avrebbe voluto difendere principi e uomini.
Solo questo retroterra consente di leggere il comportamento di Moro nei giorni tragici della prigionia e decifrare le sue lettere, che indussero un interprete d'eccezione come Leonardo Sciascia ad affermare che Moro più che un grande statista fu un grande democristiano. Si può convenire, aggiungendo però che egli aveva ben chiaro che la Dc rappresentasse in vigenza di guerra fredda la garanzia per la costruzione di uno Stato effetivamente moderno. Per l'imprevedibilità della storia, il suo programma si accelerò dopo la sua scomparsa, e dopo la caduta del Muro è divenuto il problema del sistema politico italiano. Una transizione durata quattordici anni attesta quanto fosse forte e resistente, seppure in un quadro storico modificato dalla fine del comunismo, il residuo di quella storia che Moro cercò di ammaestrare.
Al dunque la coincidenza tra Stato e società, la legittimazione reciproca tra le forze politiche, la trasformazione dei nemici in avversari è avvenuta attraverso un assestamento del sistema politico dalla parte del centrodestra, anziché sulla sinistra come Aldo Moro aveva previsto. Lo si deve alla capacità degli uomini ma anche al cambiamento dei tempi, al tramonto di un secolo segnato in profondità dal comunismo internazionale e dalle sue ricadute nazionali.
Moro non poteva neppure immaginare un simile scenario nel momento in cui la sua vicenda umana si concludeva nel pieno di una recrudescenza della guerra fredda. Il suo patrimonio politico e culturale appartiene a tutti e non può essere letto disgiunto dal tempo storico nel quale si è sviluppato. Quel che però ci sentamo di affermare è che il risultato finale di questa lunga stagione, che questo nuovo Parlamento attesta con la sua composizione e il nuovo rapporto tra maggioranza e opposizione, per molti versi non gli sarebbe spiaciuto.

Gaetano Quagliariello
www.loccidentale.it

giovedì 5 giugno 2008

Andreotti visto da vicino - di Eugenio Scalfari

Il divo Giulio. Sono andato a vedere il film su Andreotti che ha meritatamente vinto il premio della giuria al Festival di Cannes ed ora è in programmazione nelle sale con buon successo di pubblico.
Il regista Sorrentino è bravissimo, usa la macchina da presa mirabilmente, sia quando la tiene fissa sul personaggio sia quando la muove con un ritmo frenetico su oggetti, paesaggi, interni, comprimari, con un gusto di calligrafia e di citazioni colte di livello eccezionale. L'attore protagonista, Servillo, è il migliore di quanti lavorano in Italia e non teme confronti neanche sul mercato internazionale. Comprimari, comparse, luci, impaginazione grafica: tutto da approvare, sicché era giusto quanto hanno scritto i critici da Cannes quando si rallegrarono del rilancio del cinema italiano rappresentato da 'Gomorra' e da 'Il Divo'. Ma, detto tutto questo, il film non mi ha convinto. Nonostante il regista, l'attore e tutto il resto.
Giulio Andreotti è un personaggio problematico, enigmatico, difficilissimo da classificare e da incasellare. Non somiglia a nessun altro. Nella galleria dei politici italiani è un 'unico'.
Avendone scritto più volte nel corso di mezzo secolo credo di aver trovato un solo precedente che possa servire da pietra di paragone: Talleyrand. La tipologia è analoga: gusto del potere, cinismo, cattolicesimo, tradizione, trasgressione, ironia. Certo Talleyrand aveva alle spalle una grande famiglia e la Francia. Visse tra la Rivoluzione dell'Ottantanove, il Terrore, Napoleone, la restaurazione, la monarchia borghese di Filippo d'Orleans.
Andreotti non può vantare nulla di simile. Se si vuole, può rappresentare il Talleyrand dei poveri, ma lo stigma è quello.
Tutto questo per dire che un'interpretazione artistica che voglia mettersi al livello del personaggio non può che essere problematica quanto lo è lui; un'opera aperta che lasci allo spettatore di cavarne una conclusione e un senso.
Ma il film non lascia questo spazio, è schierato dalla prima all'ultima scena. Sostiene una tesi e la porta fino in fondo dalle immagini di presentazione a quelle di coda con l'elenco dei processi, delle condanne, delle assoluzioni, elencate con una oggettività che parla da sola e sottolinea la tesi come per dire: sempre assolto nonostante tutto quello che finora avete visto. Del resto una delle bravure andreottiane, nel film come nella vita, è stata quella di non lasciar tracce, segno di innocenza o indizio grave di colpevolezza?
Può sembrare strano che sia proprio io a criticare il film perché troppo schierato contro. Nel corso di mezzo secolo di giornalismo mi sono infatti trovato più volte alle prese col personaggio Andreotti, con i governi da lui presieduti, con discussioni e polemiche sorte intorno a lui. Di solito sono stato apertamente e duramente critico nei suoi confronti, ma soprattutto ho cercato di decifrarne l'enigma che resisteva. In alcune occasioni non marginali mi è capitato anche di trovarmi su posizioni prossime alle sue. Per esempio quando nel 1972 toccò il culmine la guerra chimica (così fu definita) e vide schierati da una parte Eugenio Cefis alla guida della Montedison e dall'altra Girotti (Eni) e Rovelli. 'L'Espresso' condusse in quegli anni una campagna fortemente polemica nei confronti di Cefis, il libro 'Razza padrona' ne fu una delle tappe. In quella occasione incontrammo come oggettivo alleato Andreotti, allora presidente del Consiglio.
Un'altra vicinanza oggettiva vi fu nei mesi della prigionia di Aldo Moro, sulla linea da tenere verso le Br. E ancora, più tardi, sulla politica antimafia che nei primi anni Novanta Andreotti finalmente adottò dopo un lungo periodo di 'distrazione' o addirittura di collusione gestita dai suoi uomini in Sicilia.
Lui aveva in comune un solo tratto caratteriale con Moro, uno solo ma importante: tutti e due erano 'inclusivi'. Per rinforzare il potere erano pronti a includervi gli avversari o almeno alcuni di essi. Non a caso il primo governo con il Pci dentro la maggioranza fu voluto da Moro ma con Andreotti presidente del Consiglio.
Quando Moro fu rapito, lo stesso giorno in cui quel governo si presentava alle Camere e cominciò il suo calvario che si sarebbe concluso con la morte, il disegno politico del presidente della Dc fu di includere le Brigate rosse nel sistema democratico. Riconoscere il partito armato, salvare la propria vita e dare alla lunga un'altra gamba alla democrazia italiana.
Andreotti era già andato più oltre: non avendo gli scrupoli morali di Moro aveva di fatto incluso nel sistema anche la mafia. Salvo Lima gestì questa situazione ai tempi in cui era la famiglia Badalamenti a comandare a Palermo. La mafia come supporto dello Stato per mantenere l'ordine pubblico. E come serbatoio di voti e di preferenze per la Dc e per la corrente andreottiana. In cambio mano libera sugli appalti, sulla gestione degli enti locali a cominciare da Palermo, da Trapani, da Caltanissetta. Ma quando la mafia decise di entrare nel commercio in grande stile della droga, lì Andreotti cambiò registro. Lima ci rimise la pelle. Claudio Martelli, allora ministro della Giustizia, fu l'intelligente esecutore di quella svolta.
Chi è dunque Andreotti? Un uomo di potere, innamorato del potere. Pessimista sull'Italia e sugli italiani. Governarli è necessario, trasformarli impossibile. Cattolico devoto quanto miscredente se lo si guarda in un'ottica cristiana. Figure come De Gasperi, Moro, Fanfani, Dossetti, Andreatta, Scoppola non avevano niente a che fare col suo modo d'esser cattolico.
C'è un passaggio illuminante nel film, quando lui dice: bisogna saper fare anche il male per arrivare al bene, io lo so fare e anche Dio lo sa.