Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

sabato 28 marzo 2009

Aldo Moro, mio padre. Intervista ad Agnese Moro.

Aldo Moro era un politico e un importante uomo di partito, la Democrazia cristiana, che aveva la sua sede in piazza del Gesù, in un grande palazzo color crema, nel centro della capitale. Nella grande strada adiacente, via delle Botteghe oscure, si trovava invece il palazzo del Partito comunista. La vita politica nazionale, tra il dopoguerra e i primi anni ’90, con tutti i suoi intrighi, le sue bassezze,ma anche con tutti i suoi ideali e i suoi principi, si decideva principalmente in quei pochi chilometri quadrati. Sempre in quei luoghi, carichi di profondo simbolismo, i terroristi delle Brigate rosse fecero ritrovare il corpo dello statista, rapito il 16 marzo del 1978 e ucciso dopo 55 giorni di prigionia.

A 30 anni dalla sua morte gli storici e i media si chiedono ancora se davvero non fosse possibile salvarlo e se tutta la verità intorno a quella vicenda sia stata realmente scoperta. Ogni anno le commemorazioni del rapimento e della morte di Aldo Moro e degli agenti della sua scorta accendono aspre polemiche politiche. Ma nessuno si cura di ricordare che il prigioniero delle Br, docente di diritto penale presso l’università La Sapienza, era anche e soprattutto un uomo, la cui vicenda e il cui sangue hanno segnato per sempre la vita dei figli, della moglie, del nipotino, dei suoi allievi e dei suoi amici.

«Mio padre è una persona bella, che ci può dire tanto e, quindi, vale la pena di raccontare chi fosse e ricordarlo, così come si dovrebbe fare con le tante vittime del terrorismo». A raccontare il proprio padre a Segno è Agnese Moro, la più piccola delle tre figlie di AldoMoro e sorellamaggiore di Giovanni. È lei che ci spiega perché è importante parlare dell’umanità delle vittime del terrorismo e ricordare che «con quegli atti di violenza non si è colpito mai un simbolo, ma sempre una persona».

Signora Moro, secondo lei i brigatisti che hanno assassinato suo padre si sono resi conto di avere sì rapito uno statista, ma di avere poi ucciso un uomo?

Questa è una domanda che bisognerebbe fare a loro. Però, da quello che scrivono e dicono, quantomeno si sono trovati di fronte a qualcosa di diverso da quello che si aspettavano. Forse immaginavano qualcuno con un atteggiamento arrogante, un uomo di potere, e invece si sono trovati di fronte una persona gentile e cortese, che proprio in ragione della sua educazione è stato tale anche con loro.

Cosa ricorda di suo padre nella vita quotidiana?

Le piccole cose di tutti i giorni: i piccoli affetti, come la mano che mi dava la sera prima di addormentarmi; il momento delle preghiere… Se la notte noi bambini avevamo sete chiamavamo sempre papà per farci dare l’acqua e lui s’alzava per portarcela. Chissà da quale giornata veniva o che giornata avrebbe avuto la mattina seguente, eppure lui si è sempre alzato per portarci l’acqua.

Era un padre affettuoso?

Molto. Certo a casa non rimaneva tantissimo. Però quando c’era stava con noi, ci leggeva le favole, ci cantava le canzoncine, insomma poche prediche e molta presenza.

Crescendo, voi figli avete avvertito la presenza di uno “statista” in casa?

Per noi la sua vita politica è stata sempre un’immensa seccatura: era quella che ce lo portava via. Certo, ci rendevamo conto che faceva delle cose importanti, che lo faceva per il bene del paese, perché ci credeva. Però per noi quando cadeva un governo era quasi una festa perché sapevamo che finalmente avremmo avuto papà più presente a casa, almeno per qualche giorno.

La politica portava via vostro padre, ma lui la politica a casa la portava?

No, direi pochissimo. La politica restava fuori della porta di casa, proprio per una scelta di papà e soprattutto della mamma, che voleva creargli a casa proprio un’atmosfera di maggiore tranquillità. Inoltre, lui era sempre un tipo molto riservato, quasi umile nel suo tacere le sue “gesta” politiche. Al massimo ti diceva: ho qui un mio discorso, se volete dargli un occhiata. Allora lasciava sul tavolo quel dattiloscritto, che poi magari è passato alla storia, ma sempre senza costrizioni o particolare enfasi.

Parlavate con vostro padre delle angosce e delle difficoltà politiche di quegli anni?

Si parlava, si discuteva, come in tutte le famiglie. Anche noi avevamo la nostra opinione. Noi ragazzi eravamo molto coinvolti nella vivacità della vita culturale e sociale di quell’epoca, con tutte le sue problematicità e mio padre, se glielo chiedevamo, ce ne parlava per aiutarci a crescere.

Nessun conflitto generazionale tra Moro e i suoi figli?

Certo avevamo le nostre idee, lui le sue, però era una persona con la quale era estremamente difficile scontrarsi, perché cercava sempre di capirti. Aveva molta fiducia nei giovani.

Suo padre ha mai vissuto in maniera angosciata il suo ruolo politico?

Certamente aveva delle preoccupazioni. Una volta parlammo della situazione che si era venuta a creare nel paese con i due vincitori di una elezione, la Democrazia cristiana e il Partito comunista. Nessuno dei due era in grado di governare e di avere un consenso abbastanza forte, ma entrambi avevano la stessa legittimazione che veniva dal voto popolare, la massima legittimazione che ci possa essere in una democrazia. La sensazione di un possibile scontro tra questi due enormi partiti era forte; i partiti di allora non era soltanto un qualcosa di elettorale, erano invece modi di vedere la società, di intenderla e di organizzarsi. Il confronto ovviamente era più difficile, più vitale di quello che potrebbe esserci adesso.

Cosa può dire ai giovani dell’Azione cattolica per far comprendere la figura di suo padre e il suo pensiero politico?

Innanzitutto, mio padre credeva che la vita andasse vissuta a favore degli altri attraverso l’impegno concreto nella propria esistenza, in cui investire il meglio di se stessi. Aldo Moro spesso viene considerato un pessimista, mentre non lo era affatto. Era, tuttavia, una persona piena di realismo che non si nascondeva i problemi. C’è un suo articolo intitolato Il bene non fa notizia, ma c’è, in cui lui parla proprio del tanto bene che c’è nel mondo: siamo all’inizio del ’77, quindi non proprio un periodo calmo. È in questo che si vede anche il suo essere cristiano.

Spesso si critica il modo in cui la figura di suo padre viene ricordata.

Sicuramente c’è un senso di colpa molto diffuso nei confronti della sua vicenda. Aldo Moro era portatore non soltanto di un progetto politico, ma anche di un modo di vedere la politica. Qualcuno dice che è stato scelto lui dalle Br, come poteva essere scelto qualcun altro. Io, invece, penso che lui incarnasse – come molti altri che sono stati uccisi dal terrorismo – l’idea di un paese che mette al centro le persone, che cerca di farle esprimere al meglio. Credo che lui avesse un’idea della democrazia come di un luogo in cui tutti si possono incontrare, dove intraprendere insieme una strada. C’è un giudizio che mio padre dà del terrorismo in cui parla dello “spettacolo” della violenza di allora, una violenza esplicita o paurosamente tramata nell’ombra, che non si vuole contrapporre ad altra violenza, ma è invece funzionale a interrompere un processo di libertà. Ecco, credo che non tutti apprezzassero quel modo di vedere la vita politica e democratica e il percorso che l’Italia poteva fare. Quando parli della persona di Aldo Moro devi necessariamente parlare di questo suo modo di essere, di fare politica, di avere fiducia nella società. Un pensiero che non sempre è condiviso. Quindi, a volte, penso che non ricordarlo adeguatamente significhi proprio cercare di dimenticare che ci sono altre strade per la nostra democrazia.

di
Stefano Leszcynski



venerdì 20 marzo 2009

Moro e gli studenti



martedì 17 marzo 2009

Misteri, incongruenze e interrogativi sulla tragica vicenda che ha stravolto il corso della Storia del nostro Paese

Ricorre l’anniversario dell’eccidio di via Fani e dell’assassinio dell’onorevole Aldo Moro, allora Presidente della Democrazia cristiana.
La mattina de 16 marzo del 1978, infatti, in una delle zone residenziali della Capitale un commando formato da un non meglio precisato numero di presunti brigatisti rossi, con un’azione degna degli interventi delle forze speciali antiterrorismo (meglio conosciute come “teste di cuoio”), massacrava con una precisione strabiliante la scorta dell’onorevole Moro esplodendo circa un centinaio di colpi d’arma da fuoco e sequestrava l’alto esponente scudocrociato, rimasto “miracolosamente” incolume sotto una vera e propria pioggia di proiettili.
Sul luogo della strage rimanevano i corpi esamini del maresciallo Oreste Leonardi, da circa tre lustri guardia del corpo del leader democristiano, degli appuntati Domenico Ricci e Francesco Zizzi e delle guardie Giulio Rivera e Raffaele Iozzino.
Il corpo senza vita di Aldo Moro verrà trovato, invece, 55 giorni dopo il sequestro, per la precisione il 9 maggio dello stesso anno, dentro il bagagliaio di una Renault R4 rossa posteggiata in via Caetani a Roma, ad appena qualche centinaio di metri dalla sede nazionale della Democrazia cristiana di Piazza del Gesù.
A trent’anni di distanza da quel tragico evento, nonostante siano stati celebrati nel frattempo diversi processi e riempite pagine in quantità industriale da parte dei componenti delle varie commissioni parlamentari d’inchiesta istituite ad hoc, rimangono ancora tanti gli interrogativi e le zone d’ombra cui non sono state date risposte attendibili.
A cominciare da quella relativa ai 31 bossoli privi dell’indicazione della data rinvenuti nel luogo dell’eccidio (ma anche nel covo delle Br di via Gradoli a Roma) che, come risulta dalla perizia redatta a suo tempo dagli esperti Luigi Nebbia, Antonio Ugolini, Giovanni Jadevito e Pier Luigi Baima Ballone, non sarebbero state in dotazione alle forze armate regolari ne, tanto meno, potevano essere commercializzate ai civili in quanto il calibro era ad uso esclusivamente militare. In questo contesto, sarebbe stato pertanto legittimo chiedersi a chi fossero destinate queste munizioni. Ma sull’argomento gli inquirenti hanno preferito sorvolare. Chi ha tentato invece di dare una risposta a quest’enigma è stato l’allora onorevole Luigi Cipriani (Dp) il quale, nel corso di un suo intervento in Parlamento dell’11 gennaio 1991, avanza un ipotesi inquietante: «…mi chiedo come sia potuto accadere che in via Fani fossero stati usati proiettili di questo tipo, molto particolari, che le ditte forniscono soltanto a forze statali militari non convenzionali. L’organizzazione Gladio rientra in questo tipo di struttura perché l’allora ministro della Difesa Spadolini – che asserisce di non aver saputo nulla al riguardo – elaborò la riforma inserendo tale Organizzazione tra le forze per la guerra non convenzionale dell’esercito italiano. Abbiamo quindi di fronte una serie di altri elementi sui quali non è stata fatta chiarezza necessaria e sufficiente: forse perché allora ai magistrati non fu riferito dell’esistenza di quella struttura. In ogni caso, credo che sarebbe interessante sapere come mai questo tipo di proiettili finirono nelle mani delle Brigate Rosse e di quel commando che assassinò la scorta di Aldo Moro».
Un altro interrogativo a cui non è stata data risposta è quello relativo alla denuncia dell’onorevole Mario Capanna (Dp), durante il suo intervento in Parlamento nel 1987 in occasione del voto di fiducia al governo De Mita (Dc), a proposito dell’esistenza di una struttura occulta all’interno della Sip (Società italiana per l’esercizio telefonico) composta da uomini del Sismi e da una non meglio specificata “Sala dei collegamenti”. «Questa struttura ha compiti speciali a tal punto che fu messa in allarme esattamente il 15 marzo del 1978 – denunciò Capanna nel corso del suo intervento in Aula – data che immagino le evochi cose tristi come le evoca anche a me. 15 marzo 1978 esattamente il giorno prima del rapimento di Aldo Moro. Se ne evince che questa struttura fu dunque allertata da qualcuno che sapeva esattamente cosa sarebbe accaduto il giorno dopo e probabilmente i giorni e le settimane successive».
E’ pertanto lecito supporre che i servizi segreti sapessero in anticipo che l’ex presidente della Dc sarebbe stato rapito.
Ad avvalorare questa ipotesi concorrono anche altri elementi, alcuni dei quali sono contenuti in atti parlamentari. Nella relazione della commissione stragi del 1991 (pagg. 39 e 40), ad esempio, si legge che a seguito della deposizione di un ex agente del Sismi (Servizi segreti militari), Pierluigi Ravasio, venne constatato che la mattina del 16 marzo 1978 in via Fani, al momento dell’eccidio, era presente un ufficiale del Sismi, il colonnello Camillo Guglielmi. Quest’ultimo, interrogato dai magistrati, giustificò la sua presenza in via Fani dicendo che stava recandosi a pranzo (?) a casa di un collega che abitava in via Stresa, a pochi metri da dove era avvenuta la strage. Il collega del Guglielmi, interrogato a sua volta, confermò che il colonnello del Sismi si era presentato alla sua abitazione ma dichiarò anche che Guglielmi non era atteso e che non era stato affatto programmato un pranzo.
Sempre negli atti della commissione Stragi, si legge infine che Guglielmi era in via Fani su richiesta del generale Musumeci (a quei tempi ai vertici del Sismi insieme al generale Santovito, ndr), che aveva avuto un informazione da un infiltrato nelle Br, uno studente universitario di legge il cui nome di copertura era Franco, il quale avvertì con una mezzora d’anticipo che Moro sarebbe stato rapito.
Ma ancora più inquietante è la vicenda che ruota intorno alla figura di Prospero Gallinari, il brigatista rosso evaso dal carcere di Treviso il 2 gennaio del 1977 e successivamente identificato come uno dei quattro carcerieri di Aldo Moro. Il Gallinari, infatti, non sarebbe mai sfuggito al controllo dei Carabinieri durante il suo lungo periodo di “fuga”.
E’ quanto si desume dal contenuto di una nota riservata (vedi foto) inviata, appena undici giorni prima dell’assassinio dell’ex presidente della Dc (28 aprile 1978) dal comando generale dell’Arma dei carabinieri al comandante generale della Guardia di Finanza.
Secondo quanto riportato dalla nota in questione, il cui foglio di accompagno è firmato dall’allora comandante generale della “Benemerita” Pietro Corsini, si rileva che una fonte confidenziale attendibile avrebbe riferito ai militari dell’Arma che il brigatista rosso Prospero Gallinari si sarebbe incontrato a Roma il 15 novembre del 1977, in un bar sito in via Appia Nuova, con un pregiudicato ricercato per più sequestri di persona presentatogli da una giovane donna romana di 22 anni di nome Bruna, abitante nella stessa via Appia Nuova. In quell’occasione, Gallinari avrebbe proposto al pregiudicato in questione di partecipare a un eclatante sequestro di persona a sfondo politico e avrebbe ricevuto dallo stesso un diniego in quanto la proposta non sarebbe stata ritenuta economicamente conveniente. Gallinari, poi, si sarebbe presentato al predetto incontro accompagnato da un presunto terrorista tedesco.
Sulla scorta di quanto sopra rappresentato si evince pertanto che i militari dell’Arma, a oltre undici mesi dall’evasione dal carcere di Treviso, non solo tenevano sotto controllo il Gallinari ma erano anche a conoscenza dei suoi propositi di mettere in atto un eclatante sequestro di persona a sfondo politico.
Ma non è tutto. Prospero Gallinari sarebbe stato tenuto, infatti, sotto controllo dal gruppo investigativo dei carabinieri anche successivamente alla data del 15 novembre 1977.
E’ quanto si rileva dalle dichiarazioni rese dal colonnello dei carabinieri Antonio Cornacchia, iscritto alla loggia P2 di Licio Gelli e primo ufficiale della Benemerita ad arrivare in via Caetani subito dopo il ritrovamento del cadavere di Moro, davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani e sul sequestro e l’assassinio dell’ex presidente della Dc.
Rispondendo alla domanda di un commissario che gli chiedeva se Paolo Santini (infiltrato dei carabinieri all’interno della colonna romana delle Br) in relazione alla vicenda Moro gli avesse riferito qualcosa, Cornacchia aveva dichiarato: «Penso che una volta mi abbia riferito (ma l’ho dedotto io) su un viaggio fatto da Gallinari a Roma. Gallinari mi interessava in quanto fu il primo dei coinvolti nel sequestro Moro e poi nell’assassinio. Attraverso le testimonianze (risulta anche dagli atti processuali), dal giorno del sequestro, Gallinari fu individuato».
I militari dell’Arma dunque sapevano e non sono mai intervenuti. Perché? Già la risposta a questa domanda basterebbe a smantellare l’impianto sul quale si regge la presunta “verità” giudiziaria.
Va sottolineato, inoltre, che nella nota riservata del 28 aprile del 1978, la fonte confidenziale attendibile riferisce i nomi di tutti i partecipanti all’incontro del 15 novembre 1977 in via Appia Nuova, ma evita accuratamente di fornire le generalità del pregiudicato “esperto” in sequestri di persona.
Nell’ottobre del 1993, il superpentito della ‘ndrangheta Saverio Morabito aveva raccontato al pm milanese Alberto Nobili che Antonio Nitra, noto esponente della mafia calabrese, era stato uno degli esecutori materiali del sequestro Moro. In quell’occasione, Morabito aveva tirato in ballo anche il generale dei carabinieri Francesco Delfino accusandolo di aver favorito l’infiltrazione di Antonio Nitra nel commando brigatista di via Fani.
Di certo c’è che, negli atti della commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’’assassinio di Aldo Moro viene riportato il contenuto di una conversazione telefonica intercorsa fra il deputato Dc Bettino Cazora e Sereno Freato, stretto collaboratore del presidente dello scudocrociato. Cazora informava Freato di aver ricevuto una telefonata dalla Calabria in cui veniva avvertito dell’esistenza di una foto, scattata in via Fani la mattina del sequestro, che ritraeva un personaggio noto agli uomini della ‘nrangheta.
Insomma, a trent’anni dal tragico evento non v’è alcuna certezza su come andarono realmente i fatti e, soprattutto, su chi furono i veri mandanti ed esecutori dell’eccidio e dell’assassinio di Aldo Moro. E non è detto che quando verrà tolto finalmente il segreto di Stato si riuscirà a fare pienamente luce sull’intera vicenda: alcune verità potrebbero essere inconfessabili.

di Toni Baldi
www.liberoreporter.it

domenica 15 marzo 2009

Sull'attualità del pensiero di Aldo Moro

1. Nel ricordare annualmente le date che ci richiamano il sacrificio di Aldo Moro e della sua scorta, mentre resta ancora tanto da dire e da scoprire sui 55 giorni della sua prigionia, rimane sempre vivo e di grande attualità il pensiero moroteo soprattutto per la sua straordinaria capacità di guardare “non solo al domani ma anche al dopodomani”.
Un pensiero spesso e ingiustamente ritenuto tortuoso e oscuro, ma in realtà capace, anche grazie all’uso di ardite formule linguistiche (come le famose “convergenze parallele”), di una profondità e di una lungimiranza difficili da riscontrare nel panorama politico odierno.
Il pensiero (filosofico-giuridico e politico) di Moro è attuale, oggi più che mai, perché Moro è stato capace di cogliere con grande anticipo i tempi nuovi, di indagare le trasformazioni di una società che si avviava a diventare sempre più complessa e quindi difficile da inquadrare con le categorie e i parametri precedenti.

2. C’è una preoccupazione di fondo che guida tutto il pensiero e tutta l’azione politica di Moro: il tentativo di cogliere i tratti di una democrazia difficile, caratterizzata dalla sua giovane età e dalla difficile circostanza della guerra fredda che la costringe in una forma bloccata, dimezzata.
C’è l'aspirazione verso una democrazia matura, compiuta, una democrazia dell’alternanza, del reciproco riconoscimento tra gli opposti schieramenti politici. Una democrazia del dialogo, della collaborazione, della condivisione.
E proprio su questo tema l’elaborazione politico-culturale di Moro è straordinariamente acuta, e presenta per noi motivi di grande attualità.
Potremmo ricordare la fase-laboratorio della Assemblea Costituente quando l’impegno del giovane Moro è proteso alla individuazione dei principi essenziali della nostra Costituzione nella prospettiva della costruzione di una “casa comune”.
Potremmo ricordare la faticosa nascita del centro sinistra con il primo momento del processo di consolidamento e ampliamento delle nostre istituzioni democratiche.
Si colloca in questa problematica quella della presenza e del ruolo politico dei cattolici e più in generale del rapporto tra fede e politica in un contesto di laicità quale quello disegnato dal Costituente.
C’è, ancora, da considerare il problema del potere e della necessità di stabilire in una società sempre più frastagliata ed esigente un nuovo equilibrio, un nuovo ordine, caratterizzato dall’idea dell’inclusione e non della esclusione.
C’è, infine il controverso tema della “terza fase” che non è certamente la realizzazione di un’idea consociativa del potere ma il passaggio decisivo verso quella democrazia compiuta a cui è dedicata tutta la sua vita politica.
Anche su questo aspetto Moro è sempre molto preciso e non accetta cedimenti ideali. È il caso di puntualizzare su questo passaggio per evitare strumentalizzazioni e tentativi di accaparrarsi una personalità che è e dev’essere patrimonio della cultura politica dell’intero paese. A tal proposito due brevissime considerazioni.
La prima: cambiano i toni ma il riferimento anticomunista è sempre presente nel pensiero politico moroteo. Dice in un discorso del 1960: “il nostro anticomunismo non è un tortuoso e inefficace anticomunismo di tipo conservatore … è stato da sempre il nostro un anticomunismo democratico, che nasce dall’accettazione senza riserve della democrazia, si avvale delle armi della democrazia, ha di mira non una repressione, con la forza, di masse inquiete, ma la restaurazione di una ordinata società democratica. Siamo per questo insensibili ai generici richiami dell’antifascismo, alla richiesta comunista di una sorta di solidarietà in nome dell’antifascismo”.
La seconda considerazione riguarda le ragioni dell’alleanza con Berlinguer. Di fronte all’emergenza, economica e politica, del paese (un’emergenza che si è poi di fatto cronicizzata, perché è un’emergenza che continua ad essere presente), Moro non propone un’alleanza politica col PCI, impossibile per gli equilibri internazionali e per evidenti antinomie ideali (soprattutto in materia di libertà e di pluralismo), ma una semplice (che alla luce della guerra e fredda era evidentemente già tanto, anzi troppo) convergenza sul programma (“un programma arricchito, adeguato al momento” come precisa nell’ultimo discorso ai gruppi parlamentari).
Naturalmente si tratta di una questione assai delicata che merita di essere adeguatamente approfondita.

3. C’è una costante in tutto il pensiero di Moro: esso è caratterizzato, sia per quanto riguarda la visione politica, sia per quella morale e giuridica (non a caso si parla a proposito della sua concezione giuridica di ‘diritto penale dal volto umano’), dal costante richiamo, che diventa drammatico (equivocato e strumentalizzato) nelle lettere dal carcere delle BR, alla centralità della persona umana.
Come ha scritto il suo allievo più caro (e mio amico fraterno) Franco Tritto, in un prezioso volume che raccoglie l’ultimo anno di lezioni all’università di Roma “La Sapienza”, “non si può fare a meno di rilevare come il filo conduttore dei valori umani si dipani lungo tutto il suo percorso scientifico. Il punto di partenza, il presupposto, cioè, è sempre e comunque costituito dalla centralità della persona umana, dell’uomo. Tutto intero il suo argomentare, quale che sia l’angolo visuale o il tema trattato, parte dall’uomo per ritornare all’uomo”.
Si tratta di un punto cruciale che resta di grande attualità, è anzi ancor più di attualità in un contesto culturale oggi alla moda in cui sono presenti sia sul piano teoretico, sia sul piano pratico, e quindi giuridico, politico e morale, modelli post-umanistici tendenti a sottovalutare la dimensione umana dell’esperienza a vantaggio di un imponente ed autoreferenziale potere tecnologico.
Di fronte a questi eccessi, di fronte al tentativo di privilegiare l’artificiale rispetto all’elemento umano, di fronte all’invadenza di una globalizzazione intesa soprattutto come primato dell’economico sul politico, di fronte alle sfide biotecnologiche e alle emergenze ecologiche, di fronte alla problematica di una governance della scienza e della partecipazione ai processi decisionali, alla necessità di garantire i diritti delle generazioni future, non resta che riaffermare in primis, in linea con la tradizione cattolico-democratica e con la nostra ispirazione cristiana, le basi umane della nostra esistenza.
Riscoprendo, per esempio, il senso più vero della politica. Perché le sfide che abbiamo appena ricordato, del mondo globale, con la trasformazione e l'erosione della sovranità statale e la cessione di sempre maggiori poteri ai mercati, sono sfide politiche, che richiedono sempre più l'intervento della Politica anche e soprattutto perché su molte questioni la scienza non è in grado di darci risposte chiare ed univoche; su molte questioni la scienza è "incerta" e la politica è chiamata ad intervenire sempre più spesso con competenza, lungimiranza, responsabilità, moralità.
In campo politico questo impegno di umanizzazione dell’esperienza si concretizza, in ciò che Moro aveva colto: la difesa, il consolidamento e la espansione del processo democratico. È questo lo strumento più efficace rispetto al complicarsi dei fenomeni sociali, del crescente pluralismo sociale e culturale, della sempre più evidente inadeguatezza e insufficienza dello Stato ormai troppo grande per far fronte alle “piccole” questioni ma decisamente troppo piccolo per affrontare e risolvere le grandi problematiche del nostro tempo.
Moro afferma, in un discorso tenuto a Milano nel 1959: “Una democrazia, cioè un atto di rispetto per l’uomo, per ogni uomo, per tutto l’uomo, per tutte le esperienze in cui si esprime e si concreta la sua libertà, non può che riconoscere, difendere, arricchire, questo vasto e vario contesto sociale, non può che affrontare con serietà e fiducia il problema certo difficile, dell’armonizzazione e della compatibilità di queste libere articolazioni della realtà umana. Il problema della garanzia della libertà attraverso la sintesi delle libertà è certo sempre arduo, e tale che impegna la democrazia in un sapiente lavoro di equilibrio.”

4. Cosa rimane dell’insegnamento politico di Moro? Se si guarda il quadro politico dei nostri giorni non si può non cadere nello sconforto: i partiti ridotti a contenitori senza identità e senza cultura; liste bloccate e imbottite di personaggi mediocri, che privano il cittadino del momento più importante in cui si esplica la sua sovranità e la sua partecipazione democratica.
Come può questa classe dirigente autoreferenziale pensare di affrontare le problematiche dei nostri tempi, le problematiche di una società complessa?
Infatti non li affronta, spesso perché non ha le capacità culturali per comprenderli.. Si limita a gestire il potere, ad ingrassare.
Quell’avvenimento del 16 marzo del 1978, e dei 54 giorni che sono seguiti, è ancora presente nella vita di questo paese; è da allora che la politica italiana è entrata in crisi, in una crisi da cui non si vede ancora una via d'uscita.
È da quel 16 marzo che la classe politica italiana si è attorcigliata su se stessa e si dimena in una impotenza onnivora. È impotente di fronte ai problemi economici e sociali; è ripiegata solo sulla gestione del potere, sullo spreco delle risorse pubbliche; l’unica preoccupazione è quella di perpetuarsi, di riprodursi in una inarrestabile corsa verso il basso. Tanto più crescono la sua impotenza e la sua incapacità di amministrare la cosa pubblica, tanto più aumenta la sua ansia ossessiva, onnivora, di privilegi di casta.
Nelle lettere dalla prigione e in molti discorsi Moro profetizza la degenerazione patologica di un sistema di potere chiuso su se stesso. In una lettera del 24 aprile del 1978 scrive "Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa".
Purtroppo lui non c'è, ma dal suo nome e nel suo nome può partire una mobilitazione culturale e sociale per il riscatto della Politica.

Mario Sirimarco

domenica 1 marzo 2009