Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

venerdì 31 dicembre 2010

Sandro Pertini e il cuore puro dell'amico fraterno Aldo Moro ucciso dalle Br

Lo aveva evocato anche nel suo discorso d'insediamento. «Se non fosse stato crudelmente assassinato, lui non io, parlerebbe da questo seggio a voi». E il ricordo di Aldo Moro, ucciso dalle Br nel 1978, torna anche nel messaggio con cui Sandro Pertini esordisce davanti al paese. «Un uomo politico dal cuore puro legato a me da amicizia fraterna». Un amico, dunque, come «cari amici» sono anche gli italiani cui il presidente si rivolge da subito con un linguaggio semplice. Rivoluzionando anche il copione del discorso di Capodanno: formulato non più da dietro l'austera scrivania dello studio del Quirinale, ma da una comoda poltroncina. Pertini conquisterà i cittadini con i suoi modi garbati e informali. Lo farà anche nel 1980 quando trattiene a stento l'emozione per le vittime del terremoto in Irpinia. La stessa che lo anima nel messaggio del 1981 subito dopo l'attentato a Giovanni Paolo II. Un presidente vicino alla gente e poco avvezzo ai cerimoniali, dunque. Al punto che, nel 1984, pronunciò l'ultimo messaggio del suo settennato non dal Quirinale ma dalla sala del caminetto del centro alpino dei carabinieri della Val Gardena, il luogo delle sue vacanze natalizie turbate dalla strage ferroviaria sul rapido 904 Napoli-Milano.

mercoledì 22 dicembre 2010

A Londra il confessore di Moro

Nato a Roma 63 anni fa, mons. Mennini è figlio di un ex alto dirigente amministrativo del Vaticano che condivise negli anni '70 e '80 la gestione dello Ior con mons.Marcinkus. Viceparroco della chiesa di Santa Chiara in piazza Giochi Delfici, da giovane sacerdote è stato il confessore di Aldo Moro che si rivolse a lui anche durante i giorni del sequestro affidandogli messaggi per Paolo VI. Entrato successivamente nel servizio diplomatico vaticano, è stato consigliere di nunziatura in Uganda e Turchia, per diventare nel 2000 nunzio apostolico in Bulgaria e dal 2002 prima rappresentante straordinario della Santa Sede presso la Federazione Russa e poi nunzio a pieno titolo.

Quella di «lavorare sui cammini ecumenici per meglio rinsaldare le relazioni fra Chiesa cattolica, anglicana ed altre denominazioni» è una delle priorità annunciate dal nuovo nunzio apostolico in Gran Bretagna, mons. Antonio Mennini, «perchè - spiega ai microfoni della Radio Vaticana - davvero quest'unità possa compiere qualche passo avanti e non per soddisfazioni personali, di struttura o di organizzazioni, ma perchè, come dice appunto il Signore nel Vangelo, 'il mondo credà». Ora tra i suoi compiti ci sarà quello di rinsaldare i rapporti con la Chiesa anglicana, smussando eventuali attriti per le «conversioni» di vescovi e fedeli al cattolicesimo. Ma nel passato di monsignor Antonello Mennini, che il Papa ha nominato oggi nunzio apostolico in Gran Bretagna, c'è anche un ruolo nel caso Moro, come latore di lettere del prigioniero delle Br alla famiglia.L'arcivescovo Mennini, nato a Roma il 2 settembre di 63 anni fa, figlio del direttore generale dello Ior ai tempi di Marcinkus, ha prestato la propria opera nel servizio diplomatico vaticano in Uganda e Turchia, per diventare nel 2000 nunzio apostolico in Bulgaria e nel 2002 rappresentante della Santa Sede presso la Federazione russa.Ma nel 1978 era semplice vice parroco della chiesa di Santa Lucia, nel quartiere Trionfale di Roma, e come tale era amico e confessore dell'allora presidente della Dc. Dopo la strage di Via Fani e il rapimento di Moro del 16 marzo 1978, durante la prigionia che si concluse con «l'esecuzione» del 9 maggio da parte delle Br, don Mennini diventò referente dei postini delle Brigate Rosse, Valerio Morucci e Adriana Faranda, per la consegna delle lettere scritte dal presidente della Dc nella «prigione del popolo». Il nome di «don Antonello» peraltro compare nella relazione parlamentare della commissione d'inchiesta sul caso Moro.
Nel 2008, nel trentennale della vicenda Moro, il nome di don Antonello, passato nel frattempo a incarichi diplomatici sempre più prestigiosi, è stato citato anche da esponenti politici nel rievocare le varie fasi del sequestro. Tra le testimonianze più significative quella di Francesco Cossiga, ministro
dell'Interno nel 1978, che ha raccontato: «Don Antonello Mennini raggiunse Aldo Moro nel covo delle Brigate Rosse e noi invece non lo scoprimmo. Avevamo messo sotto controllo telefonico e sotto pedinamento tutta la famiglia e tutti i collaboratori. Ci scappò, don Mennini». E ancora: «ho sempre
creduto che don Antonello, allora suo confessore e attualmente nunzio apostolico in Russia, abbia incontrato Moro prigioniero delle Br per raccogliere la sua confessione prima dell'esecuzione dopo la condanna a morte. Come ministro dell'Interno allora mi sentii giocato. Mennini ci scappò. Seguendolo avremmo potuto trovare Moro. Ma ancora oggi il Vaticano è riuscito a fare in modo che Mennini non potesse essere interrogato mai da polizia e carabinieri».Anche nei giorni scorsi, il settimanale britannico 'Tablet', anticipandone la nomina ad ambasciatore del Papa a Londra, ha scritto che Mennini «è conosciuto in Italia come il prete che ha ascoltato l'ultima confessione di Aldo Moro».In qualità di fine diplomatico, il compito che lo attende Oltremanica è di particolare importanza per il Vaticano, in
vista delle possibili tensioni con gli anglicani per il rientro nella Chiesa di Roma di gruppi di vescovi e fedeli e l'imminente creazione dello speciale Ordinariato voluto da Benedetto XVI con la costituzione 'Anglicanorum coetibus'. Su tali possibili attriti ha messo in guardia anche l'ambasciatore britannico
presso la Santa Sede, Francis Campbell, in cablogrammi rivelati recentemente da Wikileaks. «Ci sarà l'opportunità di lavorare sui cammini ecumenici - ha detto comunque oggi mons. Mennini alla Radio Vaticana - per meglio rinsaldare le relazioni fra Chiesa cattolica, anglicana ed altre denominazioni, perchè davvero quest'unità possa compiere qualche passo avanti».

di Giacomo Galeazzi
www.lastampa.it

venerdì 26 novembre 2010

Vi racconto Aldo Moro, un tenero padre di famiglia

«Molto spesso, quando si verificano atti di violenza gravissimi, paradossalmente, la persona che ne è vittima "scompare", travolta dagli eventi e sostituita da simboli e a volte, polemiche. Ho sempre pensato che questo non sia giusto e che, sia invece doveroso e più utile, anche ai fini del giudizio, ricordare le persone, soprattutto le persone belle, come era anche mio padre. Per questo, quando ho deciso di scrivere un libro su di lui, su Aldo Moro, ho cercato di raccontare soprattutto la persona, più che lo statista o la vittima del terrorismo».
Agnese Moro, che pronuncia queste parole e che, oggi, sarà il 26 novembre 18 alla libreria Ubik di Como, per presentare il suo libro "Un uomo così", (Rizzoli) aveva venticinque anni quando nella primavera del 1978, si verificarono in tragici fatti romani che, dall'attentato in via Fani al ritrovamento della Renault 4 rossa, in via Caetani, segnarono il drammatico epilogo della esistenza terrena di Aldo Moro e anche forse, di una stagione complessa della nostra tormentata storia patria. Tanto tempo e tante parole sono passati da quel momento terribile, ma non, nella memoria filiale, il ricordo e l'affetto per una figura paterna certamente sui generis ma comunque "normale", umana, che è al centro della narrazione del libro. «Questa caratteristica del mio scritto - spiega l'autrice - deriva forse dal fatto che, quando ho iniziato a stendere sulla carta i miei pensieri non avevo intenzione di pubblicarli. L'idea di partenza era quella di far conoscere ai miei tre figli la figura del nonno che non avevano mai potuto incontrare. Quando, dopo la stesura, cominciai a far leggere ad altri i miei ricordi, da più parti mi venne l'invito a pubblicarli. In questo modo è nato "Un uomo così", libro che vuole presentare a tutti la personalità privata di mio padre». La scelta di Agnese Moro è stata radicale tanto da non contemplare, nelle pagine del libro, i momenti più dolorosi dal sequestro al ritrovamento del corpo.
«Proprio per dare un'immagine completa e viva di mio padre - spiega ancora - non sono ritornata, con la mia narrazione, sui fatti del rapimento e della morte di Aldo Moro lo statista democristiano. Non volevo puntare l'attenzione su vicende già tristemente note e far riaffiorare nella mente l'immagine vista mille volte di un prigioniero messo in posa davanti alla stella a cinque punte delle Br o quella del corpo ritrovato in un bagagliaio d'auto. Il libro restituisce Aldo Moro vivo, nei suoi gesti più teneri e umani, nella sua quotidianità privata». La scelta ha dato buoni risultati, visto che il libro è stato già ristampato e incontra sempre il favore del pubblico. «Girando l'Italia per presentare il mio lavoro - racconta Agnese Moro - mi sono accorta con stupore e piacere, di quanto affetto e di quanta attenzione esistano ancora oggi, a tanti anni di distanza, nei confronti di mio padre. Credo che, presentandolo in modo così personale e intimo, mi sia stato possibile raggiungere un gran numero di persone, molto diverse tra loro, giovani e meno giovani. Si dice che le idee rimangano anche quando le persone se ne vanno ma io credo che sia proprio l'opposto e raccontare una persona aiuta anche a farne conoscere le idee». Sfogliando le pagine della biografia dedicata da una figlia a suo padre, emergono tratti, come detto, famigliari: «Mi intenrisce ancora - commenta l'autrice - il candore di Aldo Moro, il suo essere padre in modo completo e presente, sempre, nonostante le difficoltà del suo difficile lavoro. Ricordo come, da bambina, potevo sempre contare sul fatto che avrebbe rispettato il patto di tenermi la mano fino all'arrivo del sonno. Adoro il suo modo di tenere insieme le cose grandi con quelle piccole e posso citare un esempio. In una lettera scritta dalla sua prigione, mio padre, parlando a mia madre, scriveva che nella disperazione, non veniva meno la speranza che un giorno, ci ritroveremo in un mondo migliore. In quella stessa lettera però ci ricordava anche di chiudere il gas, la sera. Un particolare che può sembrare piccolo, persino prosaico ma che rivela, a ben guardare, la infinita e amorevole cura di un uomo, in una condizione terribile, eppure sempre attento al benessere dei propri cari». Questo e altri particolari della vita di Aldo Moro secondo sua figlia saranno raccontati, dunque, oggi, a Como. Ma c'è anche dell'altro. «Nella ristampa del mio libro - conclude Agnese - ho aggiunto, negli anni, documenti, testimonianze, contributi giuntimi da più parte a proposito di mio padre. Mi piacerebbe continuare ad ampliare questa ricerca anche per fornire agli storici che vorranno dedicarcisivi, nuovi materiali e testimonianze su Moro. Ora che all'urgenza della cronaca può subentrare forse un momento di più alta riflessione, sarebbe utile fermarsi a riflettere sulle fonti».

Sara Cerrato

venerdì 29 ottobre 2010

Magliana, la “cronaca criminale” e gli intrecci con i grandi misteri italiani

Quanto il neocapitalismo così caro a Pasolini abbia cambiato l’antropologia anche del crimine, lo si capisce dalle pagine di “Cronaca criminale-la storia definitiva della banda della Magliana” (Baldini Castoldi Dalai). L’autore, Pino Nicotri, per anni giornalista de ”L’Espresso”, racconta, con dovizia di particolari, gli intrecci misteriosi e l’evoluzione di questa Banda che ha segnato la cronaca nera per tanti anni. I ragazzi di vita che si incontrarono 12 giorni dopo il rapimento di Moro, il 4 marzo del 1978 alla stazione della Magliana provengono dal Trullo, da Testaccio, da Trastevere, in una Italia senza più risorse politiche, macchiata dagli omicidi di Pecorelli, Giorgio Ambrosoli e Michele Sindona.

Un luogo, un destino: i figli di una Mamma Roma “ senza più dignità e pietà” cercano il riscatto sociale nel crimine. Dediti a piccoli furti, con il rapimento del gioielliere Giansanti i ragazzi di vita, capeggiati da Giusepucci, “che solo a vederlo mette paura”, diventano “una struttura sociale di mutuo soccorso”, scrive l’autore. La loro storia si intreccia con i Nar della Mambro e Fioravanti. E poi ci sono le cene al “Fungo” e “Changrillà” con esponenti della mafia e della ‘ndrangheta calabrese. L’escalation della banda è fulminea. E dopo una lunga serie di regolamenti interni, arriva nel salotto buono della finanza italiana con il colpo di pistola alla gamba di Rosone, uomo del banco Ambrosiano. Ne è autore Danilo Abbruciati. Tre giorni prima di uscire dal carcere riceve la visita di Paoletti del Sisde e di Virgili, del sismi e del Sisde. Dopo gli anni ’80 in cui il gruppo del Testaccio e quello della Magliana si contendono il traffico di droga nella Capitale, arrivano i primi pentiti e il declino progressivo degli ex- ragazzi di vita. Ma l’ombra della banda si allunga anche sul caso Moro. Il comunicato n.7 del leader democristiano, osteggiato da Kissinger, sarebbe frutto di un accordo tra Steve Pieczenick, dell’unità di crisi di cui fa parte anche Cossiga contro l’eversione rossa, e un certo Chicchiarelli, falsario e rapinatore. Le indagini dopo la sua morte mettono in evidenza rapporti con servizi segreti, malavita romana e ambienti di estrema destra. E che dire, ci ricorda Nicotri, delle bufale sparate da “Chi l’ha visto?” sull’onda delle contraddittorie confessioni di Sabrina Minardi? Le propaggini della Magliana si addentrano ovunque la matassa intrecciata dei misteri d’Italia suscita domande senza risposta. Non a caso, Nicotri dedica il libro a Carlo Rivolta, Edoardo Agnelli a a tutti gli sconosciuti con la scimmia sulla schiena che non ce l’hanno fatta. “Ad Aldo Moro e a Emanuela Orlandi, traditi e venduti da tutti”.

Stefania Pavone
www.ilfattoquotidiano.it

mercoledì 27 ottobre 2010

L'ULTIMO DISCORSO DI MORO - di Lucio D'Ubaldo

Un testo oramai classico. Più volte esaminato e commentato, il discorso ai gruppi parlamentari - l’ultimo prima del rapimento e l’uccisione – è il testamento da cui ricavare il carattere quasi profetico, nonché tutte le qualità e tutte le ambizioni dell’esperienza politica di Aldo Moro. Un discorso che richiede tuttavia lo sforzo di rivivere le asperità di un tempo consumatosi brevemente nella ricerca di uno spazio di collaborazione tra le grandi forze popolari del Paese. Di fronte ai rischi di una crisi irreversibile, resa più acuta dalla minaccia quotidiana del terrorismo, spettava all’uomo più influente della Democrazia cristiana il compito di delineare le potenzialità e i limiti di un’intesa politica con il Partito comunista.

Solo la consapevolezza della gravità di quel momento storico aiuta quindi a capire, a distanza di molti anni, la complessità e il vigore dell’intervento di Moro. Qual era il problema? Dopo le elezioni del ’76 si era riusciti a trovare un accordo faticoso su un monocolore democristiano, guidato da Giulio Andreotti, che in Parlamento aveva ricevuto la cosiddetta “non sfiducia” da parte di una vasta rappresentanza parlamentare, ivi compreso il Pci. Ora, dopo diciotto mesi, quell’intesa mostrava la corda. All’ordine del giorno finiva per essere inserita pertanto la richiesta di un ulteriore passo in avanti, con il superamento della preclusione a sinistra e l’ingresso dei comunisti al governo. A spingere in questa direzione erano gli stessi socialisti, perché la nuova segreteria Craxi ancora non aveva preso in considerazione l’abbandono della linea pregiudizialmente unitaria su cui, per altro, era naufragata la politica degli “equilibri più avanzati” di De Martino.

Il 16 gennaio 1978 il Presidente del Consiglio rassegnava le dimissioni. Di lì a poco, nel comitato centrale del 26-28 gennaio, il Pci dichiarava che ormai non poteva più reggere il “quadro entro il quale si era svolta la vita politica italiana durante trenta anni”. E Berlinguer, incalzando duramente il partito di maggioranza relativa, era persino arrivato a dire nella sua relazione che “nel caso di un aggravamento della crisi governativa…[era giusto] avanzare […] l’idea che il partito democristiano non si oppon[esse]” alla costituzione di “un governo per iniziativa dei partiti che hanno chiesto un cambiamento del quadro politico”.

L’ipotesi dunque che la Dc rimanesse isolata, perdendo la propria centralità e finendo all’opposizione, non era affatto un’astrazione.
L’onda lunga del ’68 e il referendum sul divorzio del ’74 avevano logorato l’egemonia democristiana. Per contro, ampi settori del ceto medio e parte della borghesia laica sentivano l’attrazione verso la nuova politica del “compromesso storico”, simbolo della volontà del gruppo dirigente berlingueriano di portare alle estreme conseguenze la scelta irreversibile in favore della democrazia come terreno ordinario di confronto per l’azione stessa del movimento operaio. Anche sul piano delle relazioni internazionali il vecchio neutralismo di stampo togliattiano cedeva il passo a una sorprendente e coraggiosa accettazione dell’Alleanza atlantica, sotto il cui ombrello protettivo il Pci sentiva di poter incarnare in Italia la funzione di plausibile alternativa democratica.
Date queste novità, la pregiudiziale anticomunista sembrava sul punto di cedere.

Moro si presenta, in quel contesto, come il leader dell’autocritica severa e insieme del grande orgoglio democristiano: vale a dire, solo tenendo unite le due istanze concepisce e descrive il futuro di un partito ancora forte e ancora centrale per gli equilibri politici del Paese. Impresa difficile, resa ancora più difficile dalla cruda realtà dei rapporti di forza. Quando nel ’69 aveva rotto con la maggioranza dorotea, Moro sapeva di misurarsi con un partito in apparenza florido e sicuro di poter gestire a lungo il potere. Ben altra era adesso la situazione, avendo le elezioni del ’76 portato alla ribalta due vincitori: la Dc e il Pci. Ed egli teneva a precisare, proprio nel suo ultimo discorso, che due vincitori in una elezione creano sempre un problema.

Allora la missione era chiara e ciò nondimeno insidiosa. Certamente per Moro la crisi andava risolta, perché al Paese bisognava pur dare un nuovo governo che grazie al contributo formale ed esplicito del Partito comunista potesse godere di maggiore stabilità e capacità operativa. Tuttavia, mentre Andreotti e Zaccagnini manifestavano qualche margine di disponibilità, il presidente della Dc esprimeva apertamente le sue riserve sull’ingresso dei comunisti nell’esecutivo.
Si trattava perciò d’individuare il sentiero stretto attraverso il quale proseguire, anche se con gradualità, su quella linea del confronto che nella visione morotea avrebbe dovuto portare a un ulteriore sviluppo della democrazia italiana, legittimando il Pci come forza di governo.

Tutto ciò non incrinando l’unità della Dc, unico vero dogma inespugnabile della strategia morotea. Senza questa certezza, non era immaginabile la tenuta dell’equilibrio politico.
E senza questo equilibrio, il Paese sarebbe piombato fatalmente nell’anarchia e nella violenza. Occorreva uno sforzo straordinario a cui doveva corrispondere, sul piano delle formule di governo e delle relazioni parlamentari, una estrema flessibilità. Quella stessa, dice Moro, che nel corso di vari decenni aveva garantito alla Dc di presentarsi al Paese nella sua permanente funzione di baricentro della vita politica nazionale.

Sullo sfondo rimanevano le elezioni. Ai settori più moderati del partito Moro lascia intendere che non esclude a priori questa eventualità, benché ne veda i contorni rischiosi e l’esito niente affatto scontato. Ciò che comunque rifiuta, fermamente, è un passaggio elettorale come segno d’impotenza e d’irresponsabilità. Invece la Dc era chiamata ad esercitare, al cospetto di una pubblica opinione smarrita e preoccupata, il massimo della sua responsabilità in quanto elemento decisivo ed aggregante del sistema democratico. E qui poteva riscoprirsi, per effetto di una prova di saggezza e di coraggio, il nucleo vitale di una nuova centralità politica, tutta da guadagnare sul campo e in piena sintonia con le grandi emergenze del Paese.
In questo senso, conclude Moro, il “futuro è ancora nelle nostre mani”.

Entro tale cornice prendeva corpo l’intesa per un nuovo governo Andreotti. La linea di Moro passava a maggioranza, non senza resistenze palesi ed occulte. L’8 Marzo un vertice dei cinque partiti (Dc-Pci-Psi-Psdi-Pri) approvava le linee programmatiche e tre giorni dopo Andreotti presentava al Quirinale la lista dei ministri. Ad una settimana dalla strage di Via Fani, la tensione rimaneva comunque alta: ai comunisti suonava infatti come una beffa la riproposizione di un monocolore a guida andreottiana privo di tecnici o personalità indipendenti. Nessuna novità saliente, dunque, come se l’allargamento della maggioranza parlamentare non dovesse produrre effetti sulla compagine governativa.

Nonostante la fiducia nei confronti di Moro, alle Botteghe Oscure montava l’irritazione per un epilogo così arido e deludente. Qualcuno, retrospettivamente, ha adombrato il dubbio che il Pci avesse maturato in quei giorni il convincimento di votare contro il governo. Sebbene a smentirlo abbiano provveduto in molti, è impossibile confutare lo stato di agitazione e sbandamento in cui Berlinguer fu allora obbligato a muoversi. Non a caso Gerardo Chiaromonte ha riportato, quasi dieci anni dopo, una voce secondo la quale Moro avrebbe imposto quel tipo di struttura ministeriale con l’obiettivo di costringere il Pci a negare la fiducia, provocare quindi lo scioglimento delle camere e, solo dopo un nuovo passaggio elettorale, ipotizzare di riprendere la politica della solidarietà nazionale. Il fuoco brigatista avrebbe invece cancellato tutto: di colpo speranze, timori e sospetti perdevano ogni valore sotto la cappa di un attacco allo Stato, sferrato con inusitata potenza geometrica.

In ultimo, urge una domanda. Perché il discorso di Moro, stando al giudizio di Pio Marconi, merita di entrare in un’antologia di testi scolastici e negli studi di scienza della politica? Rileggendolo o ascoltandone la registrazione, si prova un qualche disagio per un’impostazione retorica che stride con la sensibilità e il ritmo derivanti dalla logica odierna degli spot televisivi.
Quanta distanza tra ieri e oggi, anche se Moro non parla nell’Ottocento! Dopo trent’anni, vale a dire nello spazio di una generazione appena, si deve cogliere un mutamento radicale nella forma comunicativa e nella struttura significante della messaggio politico. Nessuno è più in grado, probabilmente, di seguire e apprezzare la complessa macchina argomentativa del discorso di Moro.

Eppure quel modo di procedere spiegare e costruire, ovvero quella lucidità nel dominio della materia bruta di fatti e problemi, quasi fossero parti necessarie di un ordinamento inevitabile, e ancora quel controllo severo dei rapporti di forza e delle spinte oggettive, su cui bisogna applicare con intelligenza la forza del disegno politico; ecco, tutto questo s’incarica di trasmettere a chi si accosta alle ultime riflessioni di Moro un senso d’inconscia ammirazione. I problemi di oggi sono radicalmente diversi.
Non ci sono più i partiti ideologici, nati dalla Resistenza antifascista, né sussiste più la lotta politica che li ha generati e sostenuti nel corso della Guerra Fredda. Potremmo archiviare questo passato, compreso Moro.
Perché non lo facciamo?
Perché di Moro ci rimane la suggestione di un pensiero politico che interviene negli interstizi della storia di questo Paese, ne analizza le tendenze di fondo, i vizi e le generosità, gli slanci e le resistenze. Perché quel pensiero è in grado di elaborare una prospettiva nuova e ci regala, ancora oggi, una lezione di realismo e al tempo stesso di creatività. Perché, in ultimo, dietro la facciata delle cose legate a una precisa stagione politica c’è tutta intera la passione che serve, anche cambiando le coordinate, a organizzare un processo politico nuovo.
Intendiamoci, non è solo questione di metodologia.

Ci vuole molto di più che non la fredda elaborazione di procedure logiche per arrivare a dire che “il futuro è ancora nelle nostre mani”. Soprattutto, avendolo detto, ci vuole capacità di persuasione per fare in modo che l’affermazione - ardita anche per noi, cristiani non più democristiani - penetri nella coscienza e nei sentimenti degli interlocutori.
Una capacità ben presente in Moro, segno tangibile di energia morale e determinazione politica.

Le Sorgenti
(Giugno 2007)

lunedì 25 ottobre 2010

Torna libero il br Senzani

Torna libero, dopo 23 anni di carcere per estinzione di pena, il leader delle Br Giovanni Senzani. Con Mario Moretti guidò il gruppo terroristico dopo il sequestro Moro.

Scarcerato il brigatista Scarcerato già all’inizio dell’anno, la notizia è trapelata soltanto oggi. Senzani godeva da tempo del regime di libertà condizionale. "I giudici che m’hanno esaminato negli ultimi dieci anni hanno potuto constatare che sono una persona cambiata e infatti hanno sentenziato l’estinzione della pena - racconta il brigatista alla Repubblica - ho riconosciuto i miei errori davanti al tribunale di sorveglianza. Ora sono un uomo libero. La politica del resto l’ho abbandonata da un pezzo, ma non le mie idee di sinistra".

La militanza nelle Br Dopo gli studi a Berkeley, Senzani era diventato un criminologo di talento che insegnava nelle università di Firenze e Siena. A metà degli anni Settanta s’era accostato alle Br, nella cui sezione genovese militava suo cognato Enrico Fenzi. Senzani, gestì il sequestro di Ciro Cirillo ed ebbe l’ergastolo per l’uccisione di Roberto Peci, trucidato il 3 agosto 1981 in un casolare sull’Appia dopo un sequestro durato 53 giorni. Aveva la sola colpa di essere il fratello del primo pentito delle Br, Patrizio. Senzani, non si è mai pentito, né dissociato.

Il legale: "Ha scontato la pena" "Ha scontato la sua pena", commenta Bonifacio Giudiceandrea, avvocato difensore di Senzani raggiunto telefonicamente dall’Agi. "La libertà condizionale è terminata nell’ottobre del 2009 - spiega il legale del brigatista - dopo l’esaminazione della pratica in camera di consiglio dal febbraio di quest’anno è un uomo libero". Senzani ha trascorso gli ultimi quattro anni a Firenze dove tuttora vive. Senzani, che oggi ha 68 anni, non si è mai pentito e in merito alle polemiche suscitate da parenti e da varie associazioni per aver svolto lavori per la regione Toscana l’avvocato si è limitato a dire: "Facile dire oggi mi pento". Si è limitato a dire che tornando indietro non lo rifarebbe.

Fonte
www.ilgiornale.it

mercoledì 13 ottobre 2010

Per la prima volta, 40 anni fa, comparve la sigla Brigate Rosse

«Il padrone non rinuncerà a seminare il terrore per fiaccare la nostra volontà di lotta, per dividerci (i padroni “illuminati” non per questo sono meno feroci) e per fare questo si servirà di capi e capetti spie mostri e ruffiani. Inutile spendere troppe parole, meglio dire subito che chi interviene o si adopera contro la lotta e gli interessi dei lavoratori è un nostro nemico e come tale va colpito». Era il 28 ottobre 1970, 40 anni fa esatti, quando quel giornale-tazebao apparve per la prima volta incollato ai muri di molte fabbriche milanesi. Sinistra proletaria era il nome della testata. Allora non diceva nulla neppure ai militanti dei gruppi rivoluzionari che stavano sbocciando dal fuoco del Sessantotto. Nessuno immaginava che dietro quella sigla si nascondesse una neonata organizzazione clandestina destinata di lì a poco a diventare tristemente famosa, le Brigate rosse, con la loro stella a cinque punte. Quel giorno iniziò ufficialmente una storia che avrebbe segnato tragicamente la nostra vita per diversi decenni. Con tanti morti e feriti, lutti e dolori, senza contare il danno politico, economico e psicologico inflitto al Paese. E che purtroppo non sembra ancora essersi chiusa. Rileggendo quelle frasi di 40 anni fa non può certo sfuggire la loro impressionante somiglianza con gli attuali proclami, per esempio, contro il giuslavorista Pietro Ichino o il segretario della Cisl Raffaele Bonanni.

In realtà, era cominciato tutto poco più di due mesi prima, in un ristorante-albergo di Costaferrata, sulle colline emiliane. Lì, nell’agosto del 1970, una trentina di giovani che avevano abbandonato il Pci di Reggio Emilia, dopo una breve parentesi nella comune rivoluzionaria dell’Appartamento, si riunirono a convegno con alcuni loro compagni di Trento e Milano per decidere il passaggio dalle «parole ai fatti», cioè alla clandestinità e alla lotta armata. Durò quasi una settimana, quella riunione. E agli abitanti del piccolo centro era sembrato un normale e pacifico congresso studentesco.

A loro, non certo al Pci, a cui non erano sfuggiti i movimenti dei suoi ex iscritti e aveva inviato sul posto un paio di uomini della sua intelligence, i quali riferirono poi parola per parola tutto quello che si era detto e deciso. E neppure alla polizia, che, concluso il convegno, mandò due suoi agenti a chiedere ai ristoratori (zii del futuro brigatista Tonino Loris Paroli) l’elenco completo dei partecipanti. Sapevano di Renato Curcio e Alberto Franceschini, di Corrado Simioni e Prospero Gallinari, di Mara Cagol e Lauro Azzolini… Insomma, Pci e ministero dell’Interno avevano avuto in tempo reale l’organigramma delle Brigate rosse. E chissà perché l’uno negò per almeno sette anni la matrice di sinistra dell’organizzazione terroristica (ammise ufficialmente che le Br erano «rosse» solo nel 1977); e l’altro «lasciò fare» sino al sequestro e all’assassinio di Aldo Moro (marzo-maggio 1978).

Ma questa è materia da demandare semmai agli storici, sempre che abbiano davvero voglia di cimentarsi con l’argomento, magari in un futuro. Nel frattempo, però, conviene almeno chiedersi perché il terrorismo politico in Italia abbia una longevità non riscontrabile in altri paesi europei (Irlanda del Nord e Spagna escluse) e se esistano aspetti della sua storia ancora da illuminare.

«Il fenomeno si è riprodotto continuamente nel corso dei decenni» osserva Giovanni Pellegrino, che ne ha a lungo indagato le cause alla guida di una commissione parlamentare. In effetti, se si esamina la parabola brigatista, si può notare che dal 1978 in poi, cioè dall’anno in cui le Br raggiunsero l’apice della loro popolarità con il sequestro Moro, nonostante i durissimi colpi subiti da parte dello Stato sono sempre risorte dalle proprie ceneri. E anche dopo lunghi periodi di silenzio all’improvviso sono tornate a colpire. O comunque si sono riorganizzate. Basti pensare che gli ultimi arresti risalgono a qualche mese fa. «La verità» spiega Pellegrino «è che non si è saputo davvero fare i conti con quella esperienza».

Almeno da due punti di vista: «Troppo semplicisticamente si è descritto il fenomeno in termini di pura criminalità, negandone un carattere politico-ideologico ed estraendolo dalla storia del Paese. E per questa stessa ragione non sono mai emerse aree di contiguità e quindi il terreno non è mai stato del tutto bonificato».

Aree della contiguità: cioè zone della politica, del sindacato e della cultura in cui le Br hanno sempre goduto di una forte simpatia, molto spesso anche militante. Il tema, da sempre uno dei cavalli di battaglia di Pellegrino, è ritornato prepotentemente d’attualità proprio nelle ultime settimane grazie a due libri che portano la firma di due magistrati da sempre impegnati in prima linea contro il terrorismo: il giudice romano Rosario Priore, con il suo Intrigo internazionale, e il procuratore generale della Repubblica di Venezia Pietro Calogero, conTerrore rosso , dall’Autonomia al partito armato.

Quest’ultimo, già nel 1979, quand’era alla procura di Padova, con la sua inchiesta passata alla storia con il nome «7 aprile», toccò un nervo scoperto: il rapporto fra i dirigenti storici di Potere operaio (e poi Autonomia), Toni Negri in testa, e le Br. Quello stesso Negri che ancora oggi incita alla rivolta parlando nei centri sociali e perfino nei salotti televisivi. Secondo la tesi investigativa, esistevano legami talmente stretti fra gli uni e le altre che addirittura si poteva individuare nella leadership autonoma il «cervello politico-intellettuale» dell’organizzazione militare brigatista. Questo ruolo, secondo Calogero, Negri e gli altri lo avrebbero svolto a Parigi, all’ombra di un istituto di lingue chiamato Hyperion, fondato nel 1974 da Corrado Simioni, uno dei partecipanti al convegno di Costaferrata. Ma la sua inchiesta naufragò: sabotato da insistenti campagne di stampa condotte da intellettuali di sinistra, gli inquirenti francesi, che avevano inizialmente promesso collaborazione, all’improvviso riabbassarono le saracinesche e il magistrato padovano non riuscì ad avere gli elementi che avrebbero provato le sue accuse.

Ora Calogero torna alla carica, rivendicando la giustezza della sua intuizione: «Tra Autonomia operaia e Brigate rosse c’era un’alleanza per un progetto comune, l’insurrezione armata contro lo Stato (o la “guerra civile di lunga durata”, secondo la terminologia di Negri), e per la realizzazione di questo progetto ciascuna organizzazione agiva con mezzi, forze e tattiche propri».

A dargli ragione sono altri due magistrati, Priore e il giudice veneziano Carlo Mastelloni, anch’essi impegnati per molti anni in inchieste di terrorismo e che, come Calogero, seguendo gli stessi fili, erano giunti alla stessa conclusione: Parigi e il legame che lì si era saldato fra Autonomia e Br. «I rapporti tra le due organizzazioni erano infiniti» conferma il magistrato romano. «C’erano casi addirittura di doppia militanza. L’esempio di Bruno Seghetti valga per tutti: era già un brigatista di spicco quando nel 1977, da leader autonomo, guidò il famoso assalto al palco dal quale parlava il leader Cgil Luciano Lama, all’Università di Roma». L’idea di un partito armato, dagli insurrezionalisti del Pci sino alle Brigate rosse, passando per i gruppi della sinistra extraparlamentare, era già dell’editore-guerrigliero Giangiacomo Feltrinelli e del suo sodale di allora, Negri. «Quando il primo morì a Segrate, nel 1972, quello stesso disegno lo ereditarono Autonomia e Simioni e si realizzò proprio all’ombra di Hyperion» aggiunge Priore.

Era dunque l’Hyperion, la famigerata scuola di lingue di Simioni a lungo protetta da un personaggio come l’Abbé Pierre, il «cervello politico» delle Br? Anche Mastelloni sembra non avere dubbi: «Quello che non è emerso sul piano giudiziario è il livello dei mandanti, dei meccanismi superiori che hanno alimentato il fenomeno del terrorismo. Hyperion era una struttura molto “intellettualizzata”, in grado di sfuggire alla capacità di comprensione dei carabinieri, della polizia e dei nostri stessi servizi, che all’epoca non avevano strumenti culturali adeguati».

Eppure, col passare degli anni, man mano che giornalisti e ricercatori accumulavano nuove e sempre più preziose informazioni, l’incredibile triangolo Parigi-Autonomia-Br ha continuato a essere protetto da un alone di indicibilità da parte di intellettuali, politici e persino giornalisti. L’accusa di dietrologia è piovuta inesorabilmente contro chiunque provasse a toccare quel filo, anche in presenza di inequivocabili indizi e testimonianze. Perché quel muro resta ancora oggi invalicabile?

Una possibile risposta è rintracciabile nelle audizioni parlamentari del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che dopo l’assassinio di Moro tornò alla guida dei nuclei antiterrorismo. Racconta Pellegrino: «Dalla Chiesa fece capire chiaramente che per disarticolare la rete logistico-militare delle Br utilizzò ambienti politico-intellettuali dell’area della contiguità. E in cambio delle informazioni ricevute si dovette pagare un prezzo di impunità». Grazie o a causa (a seconda dei punti di vista) di quel «patto del silenzio» si è dovuto «circoscrivere l’area della verità giudiziaria alle Br militari, lasciando fuori le fasce politico-intellettuali che le fiancheggiarono o le diressero» osserva Priore.

Si spiega così pure la ragione per la quale diversi magistrati un tempo impegnati sul fronte antiterrorismo oggi continuano ad affannarsi a spiegare che non c’è più niente da sapere, con ambienti giornalistici e intellettuali a far loro da grancassa? Altro tema da affidare agli storici. Ma intanto, riprendendo un concetto di Pellegrino, il terreno non è stato del tutto bonificato, la radice non è stata estirpata e il fenomeno tende a riprodursi. Quante analogie tra la cronaca di questi ultimi mesi e settimane e la situazione degli anni Settanta, con vecchi e nuovi cattivi maestri che continuano imperterriti a lanciare inviti alla rivolta e a impartire lezioni di «violenza antagonistica». È mutato il contesto storicopolitico, certo. «Ma questo non significa che non ci siano più le condizioni per un ritorno alla violenza: la patologia può riesplodere perché non è stata curata culturalmente» spiega Mastelloni.

Non si sono creati gli anticorpi. E le aree del disagio giovanile e di sofferenza sociale sono più che mai possibili prede di progetti violenti. Fotografa Guido Salvini, altro magistrato per anni impegnato a Milano sul fronte dell’eversione interna e internazionale: «Dal punto di vista sociale, l’evoluzione delle Br riflette quella del mercato del lavoro. Le biografie dei nuovi brigatisti ci parlano spesso di impiegati delle poste, infermieri, distributori di riviste, informatici… Cioè tutte le categorie di lavoratori precarie e frammentate di oggi. Questo significa che la proposta terroristica preme soprattutto sulle fasce con minori garanzie e più esposte alla logica del mercato, ove c’è incertezza e frustrazione. Il terrorista non è più l’operaio massa che viene dalle grandi fabbriche, ma è il brigatista del call center». E aggiunge, lui che ha lavorato proprio su quest’ultimo filone del terrorismo interno: «Attenzione, c’è spazio, ci sono condizioni per una nuova ondata di violenza. Perché i brigatisti hanno goduto di aree di solidarietà vaste, in cui possono riprodursi. Anche di recente ci sono state manifestazioni tutt’altro che simboliche di appoggio ai terroristi arrestati. La solidarietà è stata vissuta e visibile».

I cortei sotto le carceri per chiedere la liberazione dei neobrigatisti detenuti, la raccolta di fondi, le campagne di sostegno legale sono tutti episodi preoccupanti. Anche perché vanno ad aggiungersi ai tanti altri segnali che la cronaca più recente ha prodotto: dalle contestazioni violente alla festa del Pd a Torino e in altre città ai proiettili inviati con una lettera di minacce a Luciano Violante, sino all’episodio (certo ancora da chiarire per alcuni aspetti) che ha avuto per protagonista il direttore di Libero Maurizio Belpietro. Troppi per non vedere: sottovalutare o fare finta di nulla sarebbe davvero imperdonabile.

di Giovanni Fasanella
http://blog.panorama.it

lunedì 19 luglio 2010

Intervista alla signora Moro


Questa, a trent’anni dall’uccisione di Aldo Moro, è la prima intervista rilasciata dalla moglie Eleonora su quei tragici momenti. Lo sfogo della vedova dello statista democristiano è stato raccolto da Ferdinando Imposimato, magistrato, docente, parlamentare, che lo pubblica nel volume “Doveva morire - Chi ha ucciso Aldo Moro. Il giudice dell’inchiesta racconta”.

Aldo Moro ha scritto: «Le cose saranno chiare, saranno chiare presto». Lo ha scritto in una delle sue lettere più belle. È una lettera che rileggo spesso...
«Non lo faccia perché è troppo triste...»

Quando ho riletto le dichiarazioni che lei ha fatto alla Commissione Moro, sono rimasto sconvolto. Lei afferma fatti e circostanze con precisione e verità assolute. Lei denuncia le inerzie del potere.
«Quella gente desiderava eliminarlo perché era scomodo. La gente scomoda sta dalla parte della giustizia e della verità. E poi c’è da dire che tutti avevano una paura terribile perché lui sapeva tutto di tutti, e quindi si sentivano sotto un riflettore che li inquadrava. Purtroppo non avevano capito che Aldo non avrebbe mai fatto del male a qualcuno se non fosse stato necessario per il bene comune...».

Nelle sue testimonianze, davanti alla Commissione Moro e alla Corte di Assise di Roma, lei fa un’affermazione che mi ha colpito. Dice che la tipografia delle Brigate rosse di via Pio Foà era stata scoperta molti giorni prima...
«Certo».

Lei domanda: perché, se questa tipografia era stata individuata, non è stata fatta alcuna perquisizione? E aggiunge: perché i documenti trovati nell’appartamento brigatista di via Gradoli non sono stati esaminati? Perché nessuno li ha letti? Perché sono rimasti imballati per tanto tempo? A lei chi aveva detto tutto questo?
«Erano cose che sapevano tutti. Le conoscevo io perché ero in contatto con la segreteria di Aldo. E le conoscevano quelli che avevano potere nel governo. Vede, Aldo Moro era un uomo che non aveva paura. Camminava verso la sua morte tranquillo, come se andasse a fare una passeggiata. Quando una persona non la si può corrompere, né spaventare, l’unica possibilità è quella di eliminarla perché troppo pericolosa. Aldo conosceva fatti che risalivano a dieci, vent’anni prima. Loro si rendevano conto di essere i veri prigionieri. E che c’era un’unica cosa da fare: ucciderlo. Anche perché, conoscendo la profonda onestà di Aldo Moro, erano certi che egli non aveva lasciato scritto la storia di ognuno di loro su dei pezzi di carta, consegnandoli a un notaio».

Moro, dopo gli episodi avvenuti in via Savoia, davanti al suo studio, disse: «Questa è la prova generale».
«Anche gli uomini della sua scorta, che erano ragazzi buoni, dicevano: “Noi siamo i bersagli di un tiro a segno”. Lo dicevano continuamente. Quindi Moro e i suoi custodi avevano la sensazione di essere sotto tiro. Era una sensazione che aveva anche il portiere di casa nostra. Erano tutti sorvegliati».

Ma perché non ci fu alcun controllo da parte dello Stato?
«Perché lo Stato voleva la morte di Aldo Moro. Quelli che erano nei vari posti di comando lo volevano eliminare». Può indicare qualche persona? «Io non posso indicare nessuno. Non li ho visti operare. Io sono una cristiana e se non ho la prova sicura che quello è un mascalzone, io non lo accuso. Prego Dio per lui. Prego affinché gli tenga la Sua santa mano sul capo».

Comunque in quei giorni prima del sequestro c’era una percezione di pericolo imminente.
«Gli uomini della sua scorta, e soprattutto l’autista, vivevano con l’idea chiara che un giorno o l’altro li avrebbero ammazzati. Perché Moro doveva essere ammazzato. Gli uomini della scorta erano sicuri di essere nel mirino di qualche gruppo, ma non erano intimoriti. Mi dicevano: “Signora, noi siamo certi del pericolo, ma non morirà da solo, noi siamo pronti a sacrificarci con lui”».

A un certo punto della sua audizione davanti alla Commissione Moro, usa questa espressione: «Quei poverini mi hanno detto che era stata trovata la tipografia delle Br molti giorni prima dell’uccisione di Aldo Moro e che non era stato fatto nulla». Chi erano quei poverini?
«Credo gli autisti e anche la sua segreteria. Ad Aldo la gente voleva bene. E tutti quelli che gli volevano bene non hanno mai smesso di interessarsi alla sua sorte in quei terribili giorni. Vede, a coloro che lo hanno fatto uccidere non posso stringere la mano. Se li incontro, li saluto da lontano e filo via rapidamente».

Non riesce a dar loro la mano?
«Io non sono una cristiana così santa. Sono una cristiana molto semplice...».

E questo accade quando ci sono le cerimonie commemorative?
«Sì. Ma succede anche quando li incontro per strada».

Quindi quando ci sono le cerimonie lei è costretta a incontrarli?
«Non vado mai alle cerimonie. Non ci volevo andare quando Aldo era vivo, ma lo dovevo fare come moglie di mio marito. Figuriamoci adesso. Ma il mondo è piccolo. Incontri la gente quando meno te l’aspetti. Per esempio: vado al funerale di una mia amica dell’Azione cattolica, ed ecco che me li trovo lì. Vede, dopo la morte di mio marito mi sono messa a studiare, dal punto di vista cattolico, la difficoltà del perdono. Perché uno può dire: li voglio perdonare. E io, nel profondo, li ho perdonati. Ma quando li vedo, attraverso la strada e vado dall’altra parte. Più che la morte di mio marito, mi ferisce il fatto che sia morto un innocente a causa delle perverse mire di quattro stupidi mascalzoni. Se solo fossero stati modestamente intelligenti avrebbero capito che al potere non si arriva mai attraverso il delitto».

Aldo Moro si è sacrificato per tutti.
«Io glielo dicevo: guarda come cammini verso la tua morte. E lui lo sapeva benissimo. Era il suo abito mentale, il suo modo di vivere. Era un uomo che amava il merito, la pulizia morale, l’onestà delle persone, la bontà. È un dato di fatto che Aldo, arrivato al potere, non lo abbia usato per fare del male a qualcuno. Continuamente il male gli cadeva sotto gli occhi: il tale aveva rubato, quell’altro aveva imbrogliato, l’altro ancora aveva messo nei guai tutta la famiglia. Lui cercava sempre di riparare, ma poi cercava di mettere chi aveva sbagliato in un angolino, in modo che non potesse nuocere più di tanto. In un paese come l’Italia, con la voglia di fare carriera che hanno tutti, non era poco».

E' morta la signora Eleonora Moro

Partecipo con commozione al dolore della famiglia Moro per la scomparsa della signora Eleonora che, finalmente, potrà abbracciare il suo Aldo nella luce del Paradiso.
Non dimenticherò, nelle poche occasioni in cui l'ho incontrata con l'amico Franco Tritto, la sua dignità e fierezza e la sua inesauribile ansia di verità.
Riporto la notizia del Corriere.



La vedova di Aldo Moro, Eleonora Chiavarelli, è morta a Roma. Aveva 94 anni. A lei il presidente della Democrazia cristiana indirizzò alcune delle 86 lettere inviate dal carcere delle Brigate rosse. In una scriveva: «Ti abbraccio forte, Noretta mia, morirei felice se avessi il segno della vostra presenza, sono certo che esiste, ma come sarebbe bello vederla». Le Brigate rosse non consegnarono questa lettera che venne ritrovata solo anni dopo che Moro era stato ucciso.

Nessuno conosceva la signora Noretta Moro fino al giorno in cui suo marito venne sequestrato dai terroristi il 16 marzo 1978. Subito dopo l’agguato che provocò l’uccisione degli uomini della scorta, balzò in primo piano questa donna riservata, decisa, che per salvare la vita del marito cominciò a bussare a tutte le porte, senza mai arrendersi. La sua composta fermezza convinse perfino il pontefice Paolo VI a compiere un gesto clamoroso. Dal Vaticano il papa scrisse una lettera toccante «agli uomini delle Brigate rosse». Uno spiraglio di speranza la signora Moro credette di trovarlo nella posizione del leader socialista Bettino Craxi, che voleva rompere il fronte della fermezza e percorrere una via della trattativa. Quando però il 9 maggio del 1978, dopo 55 giorni di prigionia, Aldo Moro fu trovato cadavere in via Caetani, la signora Moro cominciò a rovesciare tutto il suo livore e il suo astio contro quelli che, secondo lei, non avevano permesso al marito di tornare vivo.

Ce l’aveva soprattutto con il segretario della Dc Benigno Zaccagnini, che fu devastato dalla tragedia dell’uomo al quale lui era politicamente legato. «Il mio sangue— aveva scritto Moro ai capi della Dc — ricadrà su di voi». Durante i processi alle Brigate rosse, la signora Moro ha ripercorso varie volte la tragedia di quei giorni raccontando che suo marito aveva a volte percepito minacce e pericoli per la sua vita. In particolare una volta, dopo un incontro con il segretario di Stato americano Henry Kissinger, il presidente della Democrazia cristiana si era sentito male e venne soccorso dal suo medico personale. Ciò fu dovuto, secondo la vedova, al fatto che Kissinger lo aveva minacciato, dicendogli in modo molto rude che gli Stati Uniti non gradivano affatto la sua politica di apertura verso i comunisti. «Provo a ricordare le esatte parole che mio marito mi riferì— disse la signora Eleonora ai giudici —. Disse che Kissinger lo aveva ammonito pesantemente: o lei la smette di corteggiare i comunisti o la pagherà cara».

Questa ricostruzione è stata però sempre smentita dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga e da Giulio Andreotti. Cossiga ha spiegato che Kissinger era semplicemente stupito dal modo in cui parlava Moro, molto involuto, e non riusciva a capirlo. Uno dei misteri che ancora avvolgono il caso Moro è stato prospettato proprio dalla vedova, quando ha raccontato che suo marito portava sempre con sé 5 borse, mai ritrovate. Chi le ha prese?

Corriere della Sera
19 luglio 2010

lunedì 10 maggio 2010

La verità a puntate ... Moro, l'ultima notte doveva essere liberato

In diverse occasioni è emeersa questa tesi: il 9 maggio Moro doveva essere liberato. Molti ne erano convinti ... ma qualcosa non andò per il verso giusto. Posto questo articolo tratto dal sito di RAInews24.it:

Gli americani hanno un'espressione che calza: 'La verità è come l'olio della corazzata Missouri'. Un modo di dire che paragona la verità alle bolle di olio che ancora affiorano ogni tanto nella baia di Pearl Harbour dall' ammiraglia Usa affondata dall'attacco aereo giapponese. Qualche frammento di verità sul caso Moro affiora ancora oggi, a 32 anni dall'uccisione dello statista Dc. Tanti frammenti importanti che confermano che Moro doveva essere rilasciato vivo il 9 maggio del 1978 e che qualcosa di imprevisto, non concordato, accadde quell'ultima notte. Elemento questo confermato negli anni dall'ammiraglio Fulvio Martini, numero due del Sismi all'epoca, dal terrorista Carlos detto 'lo sciacallo' e dall'esponente dell'Olp Assam Abu Sharif: il 9 maggio, oltre al pagamento di un riscatto, a Milano era in atto una complessa azione per la liberazione di Moro grazie allo scambio tra esponenti della Raf prigionieri di Tito e detenuti Br in mano all'Italia. Martini andò in Jugoslavia per prendere in carico i tre e portarli a Beirut, dove un aereo dei servizi segreti italiani aspettava in un angolo appartato dello scalo. La destinazione prevista era lo Yemen, base di Carlos. Una fazione del Sismi, ha raccontato due anni fa Carlos all'ANSA, cercò di salvarlo: alcuni brigatisti dovevano essere prelevati dalle carceri e portati in un Paese arabo, probabilmente per scambiarli con i tre della Raf in mano a Tito. Oggi arrivano nuove conferme dopo che l'esponente dell'Olp Assam Abu Sharif ha detto che la trattativa venne improvvisamente interrotta dagli italiani, come sostiene anche Carlos: ''Avrei potuto salvare Moro. Nessuna imprudenza. Ho chiamato un numero, ho lasciato un messaggio dopo l'altro. Nessuna risposta. Davvero strano: una linea speciale e nessuno risponde...''' ha detto al Corriere della sera nel 2008. Intervistate da Alessandro Forlani per la rubrica Rai 'Pagine in frequenza' per uno speciale di Gr Parlamento alcuni protagonisti lanciano la loro personale 'bolla d'olio' su quella ultima notte. Franco Mazzola, all'epoca sottosegretario alla Difesa: ''Il governo non poteva trattare, ma poi trattavano tutti: la Dc, il Papa, la Caritas. Insomma, trattavano. E' chiaro che se Tito si prestava ad un'operazione come questa, lo faceva con l'accordo del governo italiano. Certo, ne erano a conoscenza pochissime persone: diciamo Cossiga e Andreotti; l'ammiraglio Martini il 9 maggio andava a chiudere l'operazione, ma quelli non hanno aspettato''. Umberto Giovine, allora direttore di Critica Sociale: ''L'ammiraglio Martini mi parlò un giorno di questa operazione svolta in Jugoslavia; non mi meraviglia piu' di tanto che non vi faccia neppure cenno nel suo libro di memorie, ne' che minimizzi in commissione Stragi: probabilmente si sentiva sempre vincolato dal segreto''. Per il rapimento di Aldo Moro ''tutto si gioco' nelle ultime 48 ore'', anzi ''nell'ultima notte'', quella tra l'8 e il 9 maggio del 1978 dice Claudio Signorile, all'epoca vice segretario del Psi. Agnese Moro: ''Ad un certo punto si parlo' anche di un possibile espatrio di mio padre, in cambio della liberazione; non ricordo chi ne parlo', se politici, magistrati o qualcuno dei servizi, comunque era un'ipotesi fatta anche da papa' nelle lettere''. Nuccio Fava, direttore del Tg1: il segretario di Paolo VI, Macchi, mi disse che il Papa era molto dispiaciuto che Moro avesse scritto che lui aveva fatto 'pochino'; e aggiunse che Paolo VI era pronto ad ospitare Moro in Vaticano, mettendo in piedi una commissione indipendente, che tenesse in custodia il prigioniero e definisse una trattativa tra governo italiano e Br; della commissione avrebbero fatto parte la Croce Rossa internazionale, la Mezza Luna Rossa algerina e altri soggetti neutrali. Macchi disse anche che il dolore per quanto era successo aveva accelerato la dipartita di Paolo VI''. Padre Carlo Cremona, segretario di Macchi: ''Padre Macchi, se faceva qualcosa andava fino in fondo; quella mattina era contento, come se avesse raggiunto il suo scopo, come se una promessa fosse stata mantenuta; mi disse di stare attento al telefono, perche' avrebbe dovuto chiamare una persona, che avrebbe fatto da mediatore con le Br. Questa persona avrebbe dovuto dire che la trattativa era andata in porto, e che Moro, come d'accordo, avrebbe incontrato una persona amica, forse Mennini, che lo confortasse, lo facesse salire su un'auto e lo portasse in Vaticano, libero. Io rimasi al mio posto, ma arrivo' solo la notizia che il cadavere di Moro era stato trovato''. Corrado Guerzoni, segretario di Moro: ''Che le Br abbiano fatto tutto da sole corrisponde ad una lettura sempliciotta del sequestro Moro; secondo me, hanno gestito un appalto''. Sereno Freato, tra i piu' stretti collaboratori dell'allora presidente della Dc: ''Liberare Moro avrebbe costituito un grande vantaggio per le Br: a mio avviso e' arrivato un ordine dall'alto. Forse Moro e' stato, come scrive, liberato dalle Br e consegnato a X o Y, qualche settore deviato delle istituzioni o dei servizi internazionali: le Br hanno fatto da pali. Forse Moro ha riconosciuto qualcuno; e' giusto dire che quella notte del 9 maggio tante cose sono accadute, che non sappiamo''. Una ulteriore conferma viene da Marco Cazora, figlio di Benito, deputato Dc che aveva cercato di aprire una canale di trattativa con ambienti della malavita romana che sostenevano di aver scoperto la prigione di Moro. Di fronte alle sue insistenze per un intervento delle forze dell'ordine, Cazora si senti' rispondere da qualcuno ''molto importante'': ''Smettila di darti tanto da fare, tanto quello martedi' e' libero''. Era sabato. Il figlio di Cazora ricorda anche quanto riferito da Cossiga in commissione Stragi nel '97 cioe' che Andreotti gli disse, la sera dell'8 maggio, di sperare in una soluzione positiva. L'indomani la Renault rossa era in via Caetani.

mercoledì 5 maggio 2010

Il centro sinistra tra crisi economica e tintinnar di sciabole

«Caro Nenni, ho letto ieri sera l’articolo di fondo su L’Avanti! che viene attribuito alla tua penna incisiva e non posso che essere profondamente ferito per l’accenno che tu fai, alludendo a me, come al capo di un preordinato governo di carattere fascistico-agricolo-industriale, avente il disegno strategico di umiliare il parlamento, i partiti e i sindacati!».
È il 23 luglio 1964, il secondo governo di centrosinistra, con presidente del Consiglio Aldo Moro e vicepresidente Pietro Nenni, ha appena giurato davanti al capo dello Stato, Antonio Segni, ma i protagonisti di quell’estate difficile hanno ancora il pensiero allo scontro appena concluso. Così il presidente del Senato, Cesare Merzagora, ispiratore di una svolta moderata e possibile capo di un governo tecnico, scrive al leader socialista questa lettera che trasuda risentimento. Nenni risponde immediatamente con toni secchi: «Caro Merzagora, l’articolo a cui ti riferisci era mio e non ho ad esso nulla da togliere e nulla da aggiungere. (...) Le tue intenzioni possono essere eccellenti o mediocri. Il governo di emergenza, presieduto da un "eminente Dc" o da te non poteva essere se non con un carattere "fascistico-agricolo-industriale" per dirla con parole tue». L’espressione infatti non era di Nenni, che l’avrebbe utilizzata in maniera provocatoria in un successivo articolo.
Questo interessante e poco conosciuto scambio epistolare, custodito nelle carte di Aldo Moro presso l’Archivio centrale dello Stato si può ora leggere in appendice al saggio della storica Elena Cavalieri, «I piani di liquidazione del centrosinistra nel 1964», sul nuovo numero della rivista «Passato e Presente», diretta da Gabriele Turi.
La primavera-estate del 1964 non viene ricordata soltanto per la liquidazione del centrosinistra (pur restando intatta la formula di governo, nella seconda edizione le riforme, dalla programmazione alle regioni, vennero rinviate sine die, tanto che Antonio Giolitti non accettò più la poltrona di ministro e Riccardo Lombardi si dimise da direttore dell’Avanti! ma anche e soprattutto per quel «tintinnar di sciabole» (questa sì espressione coniata da Nenni) denunciato nel maggio 1967 sull’«Espresso» dalle inchieste di Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi. Il passaggio dal primo al secondo centrosinistra è indubbiamente legato al «piano Solo», oltre che ai contatti tra il presidente della Repubblica Segni, il comandante dei carabinieri Giovanni De Lorenzo e il capo di stato maggiore Aldo Rossi.
Il saggio di Elena Cavalieri non è tuttavia dedicato all’analisi del «piano Solo», su cui in genere si incentra l’analisi storiografica sulla svolta del 1964, quanto al contesto economico in cui quella crisi si svolse. «Mentre sono note le difficoltà create dalla crisi della lira all’esistenza del primo esecutivo di centro sinistra tra il gennaio e il giugno 1964 — scrive la studiosa — il ruolo cruciale giocato dalle questioni economiche nel luglio 1964 non è stato ancora sufficientemente evidenziato... L’allarme per la "congiuntura" fu invece il principale fattore di aggregazione del gruppo eterogeneo — composto da politici, militari e industriali — che in quelle settimane si attivò per il ridimensionamento dell’esperimento di centrosinistra. Fu tale preoccupazione a spingere il presidente della Repubblica, Antonio Segni, a cercare alternative concrete al centro sinistra».
L’ossessione di Segni per la crisi economica e la sua convinzione che le riforme proposte fossero «anticostituzionali» e potessero portare al tracollo del sistema viene raccontata attraverso documenti d’archivio
(per esempio le lettere di Segni a Moro) e una copiosa letteratura, dai diari di Paolo Emilio Taviani alle lettere di Moro dalla prigione delle Brigate rosse. Resta la domanda se a depotenziare il centrosinistra fu la minaccia di una svolta istituzionale o, addirittura, di un colpo di Stato o se bastarono le pressioni della corrente dorotea della Dc, in primis il memorandum preparato da Emilio Colombo, e degli ambienti moderati. Un tema, questo, che come ricorda la Cavalieri ha animato all’inizio del 2004 una disputa tra Paolo Mieli, il quale sul «Corriere della Sera» ha espresso dubbi sul fatto che l’Italia si trovasse nell’estate del 1964 sull’orlo di un colpo di Stato, ed Eugenio Scalfari, sostenitore sulla «Repubblica» della tesi che il complotto rappresentò una reale minaccia per la democrazia. Per l’autrice del saggio il punto non è negare la pericolosità del «piano Solo» quanto mettere in primo piano i retroscena economici della crisi. Pur con molta prudenza la Cavalieri dà credito all’ipotesi che i contatti tra Segni e i vertici militari servissero per prepararsi a reazioni di piazza, non a un colpo di Stato.

Dino Messina
www.corriere.it

sabato 1 maggio 2010

Il confronto D'Alema/Castagnetti su Moro

http://youdem.tv/VideoDetails.aspx?id_video=7877f82e-77a4-4ebe-b46b-c234e8280e38

giovedì 22 aprile 2010

Libro-intervista del generale Maletti sulla strage di Piazza Fontana

Gian Adelio Maletti, allora numero due del Sid, ricostruisce gli anni delle stragi in una lunga intervista diventata ora un libro

Tre giovani giornalisti (27, 28 e 30 anni) prendono a loro spese un aereo e vanno in Sudafrica, a Johannesburg, a intervistare un vecchio generale del servizio segreto militare italiano. I tre sono Andrea Sceresini, Nicola Palma e Maria Elena Scandaliato. Il generale è Gian Adelio Maletti, numero due del Sid negli anni della bomba di piazza Fontana (1969), del tentato golpe Borghese (1970), della strage di Brescia (1974), della strategia della tensione. Per tre giorni interrogano l’agente segreto, l’ufficiale rimasto (finora) il più alto in grado a sopportare tutto il peso dei depistaggi di Stato sulle stragi. Maletti risponde. Racconta. Non ricorda. Spiega. Nega. Rivela. In maniera obliqua e parziale, ma a suo modo illuminante, ricostruisce la trama della guerra segreta combattuta in Italia in quegli anni. Protagonisti, gli esecutori neofascisti di Ordine nuovo e di Avanguardia nazionale, i loro protettori dentro gli apparati di Stato italiani, le ombre atlantiche. Il lungo colloquio diventa ora un libro, "Piazza Fontana, noi sapevamo", prefazione di Paolo Biondani, edito da Aliberti. Qui ne presentiamo un brano (pubblichiamo anche i video di quattro momenti dell'intervista al generale Maletti, parzialmente inediti, in esclusiva per il lettori dell'Antefatto). In esso, il generale Maletti parla di un informatore del Sid infiltrato nel gruppo veneto di Ordine nuovo, Gianni Casalini, fonte “Turco”. Spiega come il Sid gli impedì di rivelare alla magistratura quello che aveva visto sugli attentati del 1969. E (fatto inedito) di come i carabinieri "ripulirono" il deposito da cui proveniva l’esplosivo americano usato in piazza Fontana a Milano e probabilmente in piazza della Loggia a Brescia. Proprio domani, Maletti sarà interrogato, in videoconferenza, al processo in corso sulla strage di piazza della Loggia, l’ultima occasione giudiziaria per tentare di far quadrare i conti tra verità storica (ormai largamente acquisita) e verità processuale.

Da "Piazza Fontana, noi sapevamo" (Aliberti editore)

Sei anni dopo piazza Fontana, accadde un piccolo episodio che la vide protagonista. Era il 5 giugno 1975. Lei prese un foglio, e scrisse questo breve appunto: «Colloquio con il signor caposervizio. Caso Padova: Casalini si vuol scaricare la coscienza. Ha cominciato ad ammettere che lui ha partecipato agli attentati sui treni nel 1969 e ha portato esplosivo; il resto, oltre ad armi, è conservato in uno scantinato di Venezia. Il Casalini parlerà ancora e già sta portando sua mira su altri gr. Padovano + delle Chiaie + Giannettini. Afferma che operavano convinti appg. Sid. Trattazione futura, chiudere entro giugno. Colloquio con M.D. prospettando tutte le ripercussioni. Convocare D’Ambrosio. Incaricare gr. Cc (Del Gaudio) di procedere». Se ne ricorda?

Se dovessi ricordarmi di tutte le annotazioni che ho fatto, allora sarei un’enciclopedia vivente. Comunque sì, ricordo qualcosa. L’appunto si riferisce a un colloquio con il capo del Sid, che ai tempi era l’ammiraglio Mario Casardi. Lo scrissi piuttosto frettolosamente, come si può notare. Probabilmente, ero nel mio studio, a Forte Braschi, e c’era la macchina che mi aspettava fuori.

Il documento fu scoperto nel 1980, durante una perquisizione a casa sua. Di Gianni Casalini abbiamo già parlato: era un militante del gruppo padovano. Lavorò per il Sid, con il nome in codice “Turco”, dal 1972 al 1975: fino a quando, cioè, lei dispose la chiusura della fonte. Poco fa, lei ci ha detto una cosa importantissima: Casalini, durante la sua collaborazione, vi rivelò un grande segreto. Parlò dell’esplosivo di piazza Fontana, disse che le bombe venivano dalla Germania, che erano di provenienza americana, e che erano state consegnate ai neofascisti veneti. Tutte informazioni che rimasero misteriosamente riservate, almeno per la magistratura. Poi, nel 1975, come se non bastasse, lei prese questa decisione: chiudere la fonte. Perché?

Guardate, la decisione non fu presa da me. Fu presa dell’ammiraglio Casardi, che all’epoca era direttore del Sid. (...) Non solo non l’ha denunciato: ha cercato di evitare che dicesse altre cose. Cose piuttosto scottanti.

Sul suo appunto c’è scritto: «Casalini si vuol scaricare la coscienza».

La riunione del gruppo neofascista

Comunque, cari ragazzi, questo non è più un colloquio amichevole: questo è un tribunale, e io sono l’imputato. E invece non sono imputato.

Ma no, generale, noi non le imputiamo nulla.

No, mi piace mettere le cose a posto. Non voglio che mi si perseguiti con domande alle quali chiaramente io non posso rispondere: non per cattiva volontà, ma per mancanza di agganci mnemonici.

Non si preoccupi. Quand’è così, cercheremo di fornirle qualche nuovo appiglio. Casalini, nel 2008, ha detto molte altre cose. Il 18 aprile 1969, si svolse a Padova una misteriosa riunione: vi parteciparono i massimi esponenti del gruppo neofascista. C’era Franco Freda, Giovanni Ventura, Pozzan, Toniolo e Balzarini. E c’erano due altri personaggi, arrivati da Roma, la cui identità non è mai stata svelata. Fu stabilita ogni cosa: le bombe, gli attentati. Casalini riferì tutto al Sid. E il Sid? Che cosa fece il Sid?

Guardate, non ne ho idea. Sono passati quattro decenni.(...)

Lo scantinato di Venezia

Continuiamo a leggere. Più avanti, sempre nell’appunto, viene citato il nome di Manlio Del Gaudio, capitano dei carabinieri: «Incaricare gr. Cc (Del Gaudio) di procedere». Del Gaudio era il comandante del gruppo carabinieri di Padova.(...) Era amico del padre di Casalini, Mario. Secondo il giudice Salvini, avrebbe dovuto intercedere presso la famiglia del militante neofascista per convincerlo a starsene buono . Cioè a non parlare.

Anche questa direttiva fu impartita da Casardi. Comunque sia: io non sapevo nulla di questa amicizia. Se fosse vero, ciò spiegherebbe molte cose.

Scusi, generale, in che senso? Che cosa spiegherebbe?

Spiegherebbe, tra l’altro, che al padre di Casalini fu ordinato di ripulire alla svelta uno scantinato, un sottoscala.

Quale scantinato?

Lo scantinato di Venezia, no? Lo stesso del quale parlo nel mio appunto...

La strage di Piazza della Loggia

Generale, ci spieghi tutto con calma.

Ok, ragazzi. One should never say never, mai dire mai. Procediamo con ordine: vi spiegherò ogni cosa, una volta per tutte. Io, come dicevo, telefonai al centro di Padova, ordinando che la fonte venisse chiusa. Ordinai, inoltre, che venisse informato il comando dei carabinieri di Padova, per le incombenze del caso. (...) C’era da occuparsi, per esempio, del celebre deposito di esplosivo. (...) Chi abbia materialmente svuotato l’arsenale ha ben poca importanza. Costoro, a mio giudizio, non ebbero alcun timore di essere sorpresi sul fatto.

È un episodio gravissimo, generale. Le forze dell’ordine coprirono l’operazione, e i neofascisti riuscirono a farla franca. Ma cosa c’era, in quell’arsenale? (...) I tir carichi di esplosivo, quelli che giunsero dalla Germania, fecero tappa a Mestre, alle porte di Venezia. A bordo c’erano varie casse di tritolo, provenienti da un deposito americano in Germania: ce lo ha detto lei. È possibile, dunque, che quelle casse fossero conservate nel deposito del quale abbiamo appena parlato?

Certo, direi di sì. È un’ipotesi attendibile.

Nell’arsenale di Venezia, insomma, c’era l’esplosivo di piazza Fontana, l’esplosivo americano. Era stato Casalini, del resto, a indicarne la provenienza: è logico che ne conoscesse anche la destinazione. Questo spiegherebbe tutto: quelle bombe non dovevano essere rinvenute: l’intera strategia statunitense fu sul punto di essere smascherata. È una rivelazione pesantissima...

Io, però, non posseggo alcuna prova.

Certo, generale. Ma c’è un’altra cosa, a questo punto, che vorremmo chiederle. Il deposito restò in funzione per almeno sei anni: dal 1969 al 1975. Nel 1974, ci fu la strage di piazza della Loggia, a Brescia. Secondo le tesi dei giudici, l’eccidio sarebbe stato organizzato dallo stesso gruppo che agì a piazza Fontana: gli ordinovisti veneti. È possibile, a suo parere, che anche l’esplosivo di piazza della Loggia provenisse da quell’arsenale?

Non mi sembra un’ipotesi peregrina. Ma, ripeto, restiamo nel campo delle supposizioni. Non esistono prove.Del Gaudio e i vertici del Sid

Quello che lei non sta smentendo è uno scenario inedito, e decisamente inquietante. Ma ci dica: Del Gaudio agì di sua spontanea volontà? Sappiamo che era un membro della P2, così come i vertici della divisione Pastrengo, che fecero scomparire i rapporti su Casalini. I registi dell’operazione, molto probabilmente, si trovavano in alto: molto più in alto...

Non lo so, non lo so. So solo questo: l’ordine di svuotare l’arsenale non partì dai vertici del Sid. Non sono in grado di dire altro.

Fonte
http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2477619&title=2477619

Dopo vent'anni si può dire che Moro "doveva morire" ...

I misteri italiani nascono sempre da fatti, anomalie, depistaggi e qualche uomo – normalmente - politico che non dice tutto quello che avrebbe dovuto dire. E questo libro parte proprio da questo. Quella serie di eventi che avrebbero dovuto salvare Moro e allo stesso tempo avrebbero di certo impedito l'attacco alla democrazia italiana.

“Sono stato io, lo confesso, a preparare la manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro.” (Steve Pieczenik, membro del Comitato di crisi), “Le Br erano intenzionate a rapire un importante uomo politico. L’informativa scritta era firmata da Emilio Santillo, il funzionario più importante dell’antiterrorismo italiano... Santillo fu trasferito ad altro incarico”.
Sono questi due i pretesti che hanno convinto i due autori, Ferdinando Imposimato, giudice istruttore del Tribunale di Roma che ha seguito l’inchiesta sulla strage di via Fani e il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, e Sandro Provvisionato, giornalista professionista e coautore di Terra, trasmissione di approfondimento su Canale5, a scrivere questo libro, uscito con quattro edizioni in due anni.
Gli autori sono riusciti con pazienza e applicazione a mettere insieme fatti, documenti, testimonianze cercando di raccogliere nel libro l'intera vicenda, cercando di mettere insieme il puzzle spezzettato dell'evento che ha sconvolto la nostra nazione e che per vent'anni è stato lasciato con i suoi piccoli pezzi in chissà quale scatola di chissà quale cantina impolverata. Solo con il quadro completo si potrà dare un senso a tutto, e solo venendo a conoscenza delle cose che ancora non siamo riusciti a sapere.

Un libro avvincente, che se fosse stato un thriller politico avrebbe raccolto il consenso di milioni di lettori. Ma non è narrativa questa, è storia vera degli anni bui dell'ultimo secolo.

Ne riportiamo parte dell'introduzione.

“L’Italia è un Paese senza memoria e senza verità e io per questo cerco di non dimenticare”. Difficile non sottoscrivere quest’affermazione che Leonardo Sciascia fece in un’intervista subito dopo la morte di Aldo Moro.
Fin troppo facile, invece, trent’anni dopo, riconoscere che l’Italia resta ancora oggi un Paese senza memoria.
Questo libro ha uno scopo e un’ambizione: tenere viva la memoria e provare a chiarire, oltre la superficie di quello che appare, uno degli episodi più tragici e sconvolgenti della nostra storia repubblicana. Perché finché non saranno stati illuminati tutti gli angoli oscuri della strage di via Fani e del sequestro e dell’assassinio dello statista democristiano non sarà possibile affermare che l’Italia è un Paese a democrazia matura.
Il caso Moro è ancora oggi crocevia dei misteri d’Italia. È come se il lato oscuro della storia avesse voluto convogliare in un’unica vicenda tutti i mostri partoriti negli anni: i giochi sporchi dei servizi segreti, le logge massoniche segrete, le innominabili alleanze internazionali, il volto occulto del potere politico, il terrorismo, la mafia, le bande criminali.
Ma stiamo ai fatti. Lo statista democristiano, uno dei più stimati politici italiani del dopoguerra, è stato rapito dalle Brigate rosse il 16 marzo del 1978 ed è stato assassinato il 9 maggio dello stesso anno, dopo cinquantacinque giorni di detenzione nel “carcere del popolo”.
Il 18 maggio 1978 è stata assegnata a Ferdinando Imposimato, con Rosario Priore, Claudio D’Angelo e Francesco Amato, l’inchiesta sulla strage di via Fani, il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro.
Questo libro è il frutto di quel lavoro e delle testimonianze raccolte. Colloqui con brigatisti, familiari dello statista, magistrati, poliziotti sentiti da Imposimato nel corso degli anni. Fino a oggi. Del caso si sono occupate la Commissione Stragi e quella specifica su Moro.
Dal buio di quei terribili giorni emergono dopo trent’anni documenti fondamentali, occultati alla magistratura inquirente e giudicante. Documenti fatti sparire e poi ritrovati, inviati in minima parte alla Commissione Stragi e con anni di ritardo (1992) dal nuovo ministro Vincenzo Scotti, ma mai ai giudici. Pubblici ministeri, giudici istruttori, varie corti d’Assise, la Commissione Moro avevano inutilmente cercato di avere i documenti prodotti dai Comitati di crisi che dipendevano dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga. Molti di essi, importantissimi e in taluni casi agghiaccianti, come vedremo, non sono stati esaminati e approfonditi. Molti altri sono scomparsi. Ciò che è rimasto e si è salvato va letto oggi con nuova attenzione. [...] Ma quante sono le anomalie nel caso Moro? Lo è certamente la strage di via Fani. In quella strada, ancora oggi, i conti non tornano. Il conto dei brigatisti in azione. Il conto delle armi usate. Il conto dei proiettili sparati. Così come è un’anomalia il
comportamento del ministro dell’Interno, del Capo del Governo, dei servizi segreti, dei diversi Comitati di crisi creati proprio per salvare Moro e che, invece, alla fine, non lo salveranno. Dai documenti ritrovati emerge il ruolo avuto da alcuni esperti utilizzati come consulenti: un agente della Cia e della P2; un sospetto agente doppio (Kgb e Cia) e un terzo agente americano legato a Kissinger e al Dipartimento di Stato Usa. Ma emerge anche la composizione esoterica di quella congrega di consiglieri, la sua gestione da parte del Ministro dell’epoca, i viaggi negli Stati Uniti dei tre esperti, in pieno sequestro Moro.
Per la prima volta questo libro illustra nei dettagli la matrice e il significato di un’operazione di disinformazione messa in piedi in quei giorni: l’operazione lago della Duchessa. Ma anche lo scopo delittuoso che dietro di essa si celava.
E poi ancora lo zampino del Kgb, con il ruolo svolto da un misterioso sedicente studente sovietico che era riuscito ad arrivare a un passo da Moro nei giorni precedenti il suo rapimento.
E la presenza in Italia, sempre in quei giorni, di una quinta colonna del terrorismo tedesco legata alla Stasi, la polizia politica della Germania dell’Est. Cia, Kgb, Stasi: è evidente che il delitto Moro ha rappresentato una particolare coincidenza di interessi.
Dicevamo di anomalie. Ma non è un termine troppo riduttivo? [...]

da
www.urloweb.com

venerdì 16 aprile 2010

Un artista di nome Marco Bellocchio: Buongiorno, notte

di Costanza Ognibeni
www.cineforme.it

Suonano a morto le campane dell’inno che negli anni 70 accompagnava le azioni dei giovani anarchici che si ribellavano al potere costituito. La canzone, presa da una poesia scritta da un soldato della Resistenza direttamente dal carcere di Fossombrone, nel 1967, riecheggia nella mente del curioso spettatore che si presta per la prima volta ad assistere alla proiezione del lungometraggio che l’“artista” scrisse e produsse nel 2003. Storie di rivoluzione, storie di lotta clandestina. Storie di rivolta senza identità. Il Galeone è il sottofondo che accompagna la vicenda di Chiara nell’era degli anni di piombo. Chiara, 23 anni. Bibliotecaria al ministero, di giorno: sguardo spento, abiti austeri. E nessuna luce negli occhi.

Chiara, 23 anni. Brigatista, di notte: ribelle, contestatrice, sovversiva. Vive con Ernesto, con Primo e con Mariano, compagni di lotta. Insieme, combattono per la libertà del popolo. Insieme, lottano per l’abbattimento di un potere che si è sedimentato nel loro paese, ma ancor di più nella loro mente. Ma anche il Dottor Jekyll aveva provato a uccidere Mister Hyde, poiché non sopportava quella bestia che si era impossessata del suo corpo. Ucciderlo materialmente, tuttavia, era anche suicidio.

Distruzione. Questa l’unica chiave che i quattro brigatisti vedono come possibilità di aprire la porta dietro la quale si cela la libertà. O così credono. Solo la storia ci insegna che dietro quella porta, in realtà, si celava il suicidio. Distruzione di ciò che opprime. Distruzione di ciò che fa ammalare. Distruzione di ciò che toglie la libertà. Ma anche del Dottor Jekyll, morto Mr. Hyde, non si seppe più nulla.

Tesi, antitesi, sintesi. Timida, la voce dello scrittore del Manifesto si affaccia di tanto in tanto tra un fotogramma e l’altro. Ora nei gesti del soldato brigatista, ora negli occhi di Chiara, ora nei suoi sogni. Annullare la realtà e poi ricrearne una nuova. E Chiara sogna una panchina abbandonata al gelo della neve. Perché, in fondo, Chiara lo sa: dopo l’annullamento è impossibile qualunque forma di creatività.

A meno che, per puro caso, non si abbia la fortuna di vedere un neonato introdotto nel proprio appartamento. Un neonato con cui solo Chiara riesce a relazionarsi, anche se per poco, poiché i suoi compagni non si rendono nemmeno conto della sua presenza, troppo presi a sequestrare il leader dei Democratici Cristiani con il fine di ucciderlo: questo è ciò che vuole la lotta di classe, per far sì che «la classe operaia arrivi a dirigere tutto».

A meno che, per puro caso, non si abbia la fortuna di incontrare un giovane sceneggiatore, possibilmente innamorato: Chiara conosce Enzo, un ragazzo come tanti, appassionato di scrittura, di poesia, di narrativa. E di tutto ciò che è bello. Enzo ha scritto una sceneggiatura. Si intitola “Buongiorno, notte”, come la poesia di Emily Dickinson. Quella in cui l’autrice, rifiutata dal Giorno che tanto amava, saluta la Mezzanotte. Anche Enzo saluta la sua, di Mezzanotte. E lo fa raccontando di una giovane brigatista che un giorno, insieme alla sua squadra di guerriglieri, rapisce Aldo Moro. Ma poi se ne pente. Ma, forse, è troppo tardi. O forse no.

Il giovane sceneggiatore parla d’immaginazione, di rivoluzione, quella vera. Parla di una rivoluzione reale, possibile solo attraverso la fantasia, attraverso il pensiero creativo. Disprezza, Enzo, i brigatisti. Non perché sia d’accordo con il potere costituito, non perché sia dalla parte dei conservatori o, peggio, dei democristiani. Enzo è contrario perché riesce a leggere la vera pazzia che alberga nelle menti di quanti, giorno dopo giorno, consumano la loro vita dietro inutili rituali quotidiani conditi dal sapore sciapo della routine, senza coltivare sogni, ambizioni. Senza immaginare, senza cercare quella spezia che potrebbe rappresentare il giusto condimento della loro esistenza. Diversa per ognuno. Perché diverse le identità. Impetuosi, i numerosi ribelli non si rendono conto di essere, in realtà, le vere pedine nelle mani del potere: marionette che eseguono movimenti dettati da un burattinaio che, quotidianamente, decide come devono vivere. E come devono morire.

«…C’è gente che…fanno ogni giorno la stessa cosa; poi di colpo vogliono tagliare per i campi e cambiare il mondo con un colpo di pistola. E non si accorgono che la loro vita, quella di tutti i giorni, è lo zero assoluto. Ho letto su un giornale che un brigatista, tra un omicidio e l’altro, leggeva Tex Willer e si masturbava con le riviste porno…dissociazione pura».

Chiara è affascinata da Enzo. E non vuole più uccidere Aldo Moro. E comincia a immaginare, a pensare, a sognare. Sogna di poterlo liberare, sogna di averlo seduto lì, vicino a lei, a leggerle il libro con le lettere dei condannati della resistenza Europea ai loro cari. E si ribella. I compagni brigatisti, invece, continuano a volerlo uccidere. Non perché ce l’abbiano con lui in particolare, con la sua specifica persona. L’odio non è verso Aldo Moro, ma verso il rappresentante di un potere che va annientato. Aldo Moro, in quanto persona, non esiste. Le sue parole, la sua paura di fronte alla morte, le lettere che invia ai suoi cari. Aldo Moro non c’è. Pura astrazione, quella del brigatista che, perso il rapporto con suo figlio, decide di condannarlo.

«Questa è una prova per noi che non ci devono essere limiti umanitari nella guerra rivoluzionaria. Non esiste un’azione che non si possa fare; per la vittoria del proletariato è lecito uccidere anche la propria madre. Quello che oggi sembra inconcepibile, assurdo, disumano, in realtà è un atto eroico di annullamento supremo della nostra realtà soggettiva: il massimo dell’umanità! (…)»

Ernesto, Primo, Mariano e Chiara. Tutti d’accordo sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Poi, Chiara si ricrede: dopo aver conosciuto un giovane scrittore, dopo aver accudito, per sbaglio, un bimbo appena nato.

Poi anche Ernesto, dopo aver realizzato che essere un brigatista significa non potersi rapportare con la propria donna. O uccidi, o fai l’amore. Le due realtà non possono convivere. Parallele, queste rette sono destinate a non incontrasi mai, nemmeno in un punto infinito, poiché, Ernesto lo sa, esser brigatista vuol dire rinunciare a sognare. E senza sogni, la sua Giulia non può esistere a fianco a lui. Poesia, non storia, quella che l’artista narra scrivendo le pagine della sua sceneggiatura e traducendole poi in immagini, accompagnate, di volta in volta, da una coinvolgente colonna sonora che quasi trasforma le impeccabili performance dei singoli attori in veri e propri balletti, in cui ognuno, come da copione, conserva un proprio ruolo. Chi è la vittima, chi il carnefice, nei 105 minuti di questa teatrale rappresentazione cinematografica? Forse, invece di cercare un’immediata risposta, occorre sospendere il giudizio e guardare: Aldo Moro è perdente nei confronti dei brigatisti; i brigatisti sono perdenti nei confronti della storia.

La rabbia la vera protagonista del racconto. Il vero burattinaio che, ancora una volta, toglie dagli occhi quella luce che permette di guardare oltre. La rabbia che rende ciechi, svuotando del loro significato tutti i segni che la realtà propone e li rende astratti. E allora, un uomo non è più un uomo, ma un partito, un potere, e va pertanto abbattuto. Un ragazzo non è un ragazzo, ma un soldato che deve lottare. Chiara non è una donna, non ha un uomo e non ha un bambino. Chiara è un’organizzazione, un gruppo armato. Ma, forse, è proprio quel cominciare a volersi riconoscere come donna la chiave che la salverà dalla pazzia dell’omicidio.

…Su schiavi all'armi all'armi!
L'onda gorgoglia e sale
tuoni baleni e fulmini
sul galeon fatale.Su schiavi all'armi all'armi!
Pugnam col braccio forte!
Giuriam giuriam giustizia!
O libertà o morte!
Giuriam giuriam giustizia!
O libertà o morte!

venerdì 19 marzo 2010

Internet e gli anni di piombo, caccia ai latitanti

Ecco il testo di un'interrogazione presentata dall'on. Marco Beltrandi (ed altri):

Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro degli affari esteri, al Ministro della giustizia, al Ministro dell'interno.

Per sapere - premesso che:
Internet è il più grande mezzo di comunicazione di massa della storia dell'umanità e ciò sia in termini di destinatari dell'informazione sia in termini di produttori di informazione;
un post su un blog, o strumenti consimili, ad alta visibilità, possono contribuire a formare o consolidare movimenti di opinioni, ed essere utilizzati per dar vita a manifestazioni di varia natura;
come per ogni strumento, le finalità perseguite tramite la rete, dipendono dalla volontà dell'agente e non dal mezzo stesso;
a questo proposito, a seguito della diffusione on line di dati riguardanti noti terroristi, la stampa e la tv, specificamente un servizio del TG5 trasmesso in data 29 novembre 2009, hanno fatto emergere la notizia riguardante alcuni latitanti degli anni di piombo - segnatamente Alessio Casimirri e Guglielmo Guglielmi. Costoro, macchiatisi di reati gravissimi, sarebbero facilmente rintracciabili in rete;
le persone di cui sopra hanno segnato tragicamente la storia del nostro Paese perché, il brigatista Alessio Casimirri ha preso parte al gruppo di fuoco del sequestro dell'onorevole prof. Aldo Moro ed, in seguito a tali crimini, è stato condannato a undici ergastoli;
in rete compaiono persino il suo numero di telefono, così come alcune foto da sommozzatore;
costui sarebbe l'ultimo latitante del caso Moro. È cittadino nicaraguense da oltre 15 anni, pur avendo l'Italia contestato le modalità di ottenimento del relativo passaporto;

Guglielmo Guglielmi è stato invece condannato a 30 anni e a 9 anni di carcere per duplice omicidio - pene mai scontate - ed apparteneva alle «unità combattenti comuniste» da cui si generò la «Brigata 28 marzo» che poi colpì a morte il giornalista Walter Tobagi. Anche lui sarebbe rintracciabile on line e, secondo altre fonti, sembrerebbe persino aver ottenuto un passaporto diplomatico per collaborare con le Nazioni Unite. Risiederebbe in Nicaragua di cui è cittadino dal 1989;
non esiste un quadro di accordi internazionali tra il nostro Paese ed il Nicaragua per richieste di estradizione di connazionali che abbiano commesso reati sul nostro territorio;
per l'eventuale ottenimento dell'estradizione, l'unico strumento utilizzabile, è quello del rapporto politico-diplomatico tra i due Stati, esercitando quella moral suasion utile al riguardo;
non esistono, altresì, accordi per la cooperazione giudiziaria tra i due Paesi, che consentano almeno lo svolgimento delle minime attività istruttorie;
i fatti sopra riportati, ove trovassero riscontro, rappresenterebbero, ad avviso degli interroganti, un grave vulnus allo stato di diritto e una grave ed ulteriore ingiustizia nei confronti dei familiari delle vittime -:
se quanto riportato in premessa corrisponda al vero;
se esista e, nell'eventualità positiva, da quali uffici della pubblica amministrazione sia svolta, un'azione sistematica di monitoraggio della rete, alla ricerca di notizie utili alla collettività;
se i Ministri interrogati non ritengano opportuno assumere le iniziative di competenza, conformemente agli usi formali ed informali propri del diritto internazionale che disciplina fattispecie di questo tipo, relativamente ai due specifici casi riportati in premessa;
se non ritengano opportuno effettuare approfondimenti presso le Nazioni Unite, per chiarire la posizione rivestita in quella organizzazione, da Guglielmo Guglielmi.

martedì 9 marzo 2010

Casimirri: condannato all'ergastolo per il caso Moro fa il ristoratore in Nicaragua ...

Condannato a sei ergastoli e mai incarcerato. L’ultimo latitante di via Fani, la primula rossa del commando che rapì Aldo Moro nel 1978, è libero e indipendente a Managua, progetta un film a Hollywood e si diletta con la pesca subcquea. Alessio Casimirri, l’uomo che da 28 anni è uno dei più grandi ricercati d’Italia, a 59 anni fa il ristoratore, sospeso tra il suo locale storico a Managua, La Cueva del Buzo, e le battute di caccia subacquea a San Juan Del Sur, dove da poche settimane ha aperto il suo secondo ristorante, il Dona Ines.

Nella vita precedente, quella che lo vorrebbe dietro le sbarre per essere stato uno dei protagonisti del terrorismo italiano, era «Camillo», nome di battaglia dell’unico brigatista ancora latitante che fece parte del commando Moro. Prima ancora, un bambino cresciuto tra i palazzi papalini, dove il padre è stato per trent’anni il potentissimo capo dell’ufficio stampa della Sala Vaticana. «Scrivere un libro sulla mia vita? Ci ho pensato più volte. Ma vorrei andare oltre: pensavo a un film a Hollywood, come mio padre».

Nel suo locale in Nicaragua, mentre infila un Dvd nel registratore per mostrare le sue imprese di pescatore subacqueo, Casimirri racconta: «Il film del mandolino del capitano Corelli (quello con Nicholas Cage protagonista, ndr) è la storia di mio padre. Mi raccontava fin da piccolo della sua campagna a Cefalonia. Tutti gli episodi sono veri, anche la ragazza, solo che non era greca, era croata. Si chiamava Nada, mio padre andò a prenderla in Grecia dopo la guerra e la portò in Italia. Poi però si lasciarono». Casimirri sa tutto della pesca subacquea e delle prede: come si spostano, cosa mangiano, quando. Ma non appena si tocca l’argomento Moro, si chiude a riccio. Nel libro, o nel film, ci sarà un capitolo anche sul rapimento? «Non mi toccare questo tasto» dice facendo intuire che smetterà di parlare.

L’Italia ha chiesto più volte la sua estradizione ma il Nicaragua dei sandinisti si è sempre opposto: sebbene entrato nel Paese sotto falso nome nel 1982, Casimirri si è sposato con una nicaraguense Raquel Garcia Jarquin nel 1986, ha avuto tre figli ed è diventato cittadino del Nicaragua a tutti gli effetti. Niente da fare. Nel 2006 un italiano lo ha riconosciuto in Costarica, a El Ostional, cittadina a un passo dal confine. Ci andava spesso, aveva aperto un altro locale. L’italiano ha fatto una soffiata ai Servizi, è stata organizzata una trappola per catturarlo. Ma qualcuno, forse, lo ha avvertito: «Vedo persone strane che girano nel mio locale, l’Italia vuole per forza arrestarmi. Ma io il giorno del rapimento Moro insegnavo educazione fisica in una scuola» ha dichiarato a El Nuevo Diario, giornale di Managua, nell’unica intervista che abbia mai rilasciato. A El Ostional non si è fatto più vedere.

L’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli è andato su tutte le furie: «Così non lo prenderemo mai». È l’ultimo rimasto. Rita Algranati, la sua ex moglie, è stata catturata nel 2004 in Egitto con il suo nuovo compagno. Casimirri, nel suo locale dove si cena con 50 dollari in un Paese dove un taxista ne guadagna 400 al mese, invece parla di pesci e di gare subacquee. Su un tavolino, le coppe: campione nazionale di pesca subacquea del Nicaragua, più altre due della gara a El Ostional del 2009. Ci ha messo solo tre anni a ritornarci.

martedì 26 gennaio 2010

Caso Moro, in Repubblica Ceca inchiesta sulla «pista cecoslovacca»

È stata aperta ufficialmente l'inchiesta della polizia della Repubblica ceca per verificare se davvero dietro il rapimento e l'uccisone di Aldo Moro, ad opera delle Brigate rosse nel 1978, ci sia stata la mano della StB, la polizia segreta del regime nella Cecoslovacchia pre 89. Del caso si occupa l'Urad dokumentace a vysetrovani zlocinu komunismu (Udv) - Ufficio per la documentazione e le indagini dei crimini del comunismo, un organo creato nel 1995 per decisione del ministro dell'Interno e che dal 2002 fa parte del Dipartimento di polizia criminale della Repubblica ceca.
Il compito dell'Udv è occuparsi di reati penali commessi nel periodo del regime - dal 1948 al 1989, anno della cosiddetta Rivoluzione di Velluto - e non perseguiti per ragioni di carattere politico. «Stiamo accertando se veramente un gruppo di brigatisti rossi sia stato addestrato in un campo speciale di Karlovy Vary», ha detto Eva Michalkov, ufficiale Udv, riferendosi alle voci, ricorrenti, secondo cui nella Cecoslovacchia comunista era operativo negli anni '70 un campo di esercitazioni paramilitare frequentato dai terroristi italiani. Karlovy Vary, cittadina termale nota anche col nome tedesco di Karlsbad, si trova nei Sudeti, zona occidentale del paese, a poche decine di chilometri dal confine con la Germania. «Per ora possiamo comunque confermare che negli anni '70 il nostro paese era abitualmente frequentato da esponenti di rilievo delle Br, dallo stesso Renato Curcio» ha aggiunto il capitano Michalkov, che in prima persona sta seguendo l'inchiesta. La pista esplorata è quella della teoria secondo cui dietro il sequestro e la morte dello statista italiano ci possa esser stata la mano della Cecoslovacchia comunista su ispirazione della Unione sovietica. Tesi non certo nuova, ma che ora Praga ha deciso di scandagliare.
La stampa ceca, nel dare notizia dell'apertura di questa inchiesta, cita anche Vittofranco Pisano, esperto statunitense di intelligence e security, secondo il quale Moro potrebbe essere stato addirittura prigioniero a Roma nel 1978 nei locali dell'ambasciata cecoslovacca. «In ogni caso, per il momento non abbiamo accertato che a Karlovy Vary fosse operativa in quegli anni una base segreta Stb frequentata da terroristi italiani» ha dichiarato la Michalkova, pur ammettendo che se un campo del genere fosse esistito, ne sarebbe stato al corrente un circolo molto ristretto di agenti, obbligati alla massima segretezza. Dalla Michalkova un invito alla collaborazione agli inquirenti italiani. «Attraverso la Interpol abbiamo chiesto alla polizia italiana che ci fornisca tutte le conclusioni cui sono giunte le indagini italiane. Sino a quando questo materiale non ci verrà messo a disposizione, dubito che si possa accertare la verità».

www.ilgiornale.it

mercoledì 13 gennaio 2010

La mafia non doveva intercedere per la liberazione di Moro

Esponenti dei Servizi Segreti fecero pressioni sull'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino perche', qualora alla mafia fosse stato chiesto di intercedere per la liberazione dell'onorevole Aldo Moro, lui convincesse il boss Bernardo Provenzano a non intervenire. E' una delle rivelazioni contenute nei verbali di interrogatorio di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, depositate agli atti del processo al generale dei carabinieri Mario Mori, ex vicecomandante del Ros accusato di favoreggiamento alla mafia.

Interrogato dai pm della dda di Palermo il 21 giugno del 2008, Ciancimino racconta dei rapporti tra il padre ed esponenti dei Servizi. "I rapporti con i Servizi - spiega il teste - mio padre li ha sempre avuti". E prosegue: "I Servizi hanno avuto un ruolo sempre chiave, specialmente dopo il sequestro Moro. La prima volta che si e' parlato di Servizi, realmente, all'interno di Cosa Nostra, avvenne nel sequestro di Aldo Moro. Perche', una volta sempre in occasione di appunti che prendevo per la stesura di questo mio ipotetico libro, mio padre mi disse che era stato pregato per ben due volte, di non dar seguito a delle richieste pervenute per fare pressione su Bernardo Provenzano perche' si attivassero per potere interferire, per quantomeno aiutare lo Stato nella ricerca del rifugio di Moro".

Poi spiega meglio: "Mio padre diceva che tali richieste potevano pervenire al suo paesano Riina da altri gruppi o esponenti politici, se cio' fosse avvenuto, mio padre doveva convincere il Provenzano a non immischiarsi in questo affare".

Ad ulteriore chiarimento il pm domanda: "Dunque per ben due volte sarebbe stato chiesto a suo padre di intervenire su Provenzano a impedire o ad evitare che vi fossero interventi di Cosa Nostra per liberare Aldo Moro, giusto?". "Perfetto", risponde Massimo Ciancimino.

"Un momento in cui ci fu un grande movimento dei Servizi Segreti con mio padre - racconta Massimo Ciancimino - fu nel 1980. Non mi posso scordare: 19 giugno 1980. Mi ricordo che proprio quella sera ci fu la strage di Ustica".
"Mio padre - spiega - fu chiamato subito e si incontro' uno o due giorni dopo col ministro Ruffini. Mi disse che era successo un casino e che doveva vedere, fece andare a chiamare l'onorevole Lima, fece andare a chiamare altre situazioni, altri personaggi, e quando ho chiesto a mio padre realmente cosa fosse successo, mi racconto' che gia' allora, il primo momento, si seppe della storia dell'aereo francese che per sbaglio aveva abbattuto il DC9 e che bisognava attivare un'operazione di copertura nel territorio affinche' questa notizia non venisse per niente".
"E qualora ci fosse stato bisogno di interventi di qualsiasi tipo - conclude - loro dovevano poter contare su mio padre".
"Loro chi?", chiede il pm al teste.
"I Servizi", risponde Ciancimino.

fonte
rainews24

venerdì 8 gennaio 2010

Il libro di Alessandro Fruci su Sturzo


Vi segnalo l'uscita del libro del mio amico Alessandro Fruci sul pensiero di don Luigi Sturzo.

Figura geniale, poliedrica, Luigi Sturzo fu un protagonista indiscusso del secolo appena trascorso sia nel panorama nazionale che in quello internazionale. Il suo ideale cosmopolitico, il suo acceso europeismo, la sua riflessione sui temi della pace, della sicurezza internazionale, del superamento del diritto di guerra, costituiscono il contributo più attuale del suo impegno pratico e teorico. Le sue battaglie per la giustizia, la libertà, l'equità, il rispetto per le identità culturali e religiose dei popoli e per le legittime aspirazioni di ciascun individuo sono le stesse che combatte oggi l'evoluta e complessa società del terzo millennio. L'insegnamento del sacerdote di Caltagirone ci porta ad affermare che la soluzione ai numerosi problemi odierni passa necessariamente attraverso la costruzione di una civiltà nuova fondata su un internazionalismo che si sviluppi dal basso e che si regga sul consenso e sulla partecipazione degli individui alla vita della costituenda comunità internazionale.

A. Fruci, La comunità internazionale nel pensiero di Luigi Sturzo, Aracne, Roma, 2009.

giovedì 7 gennaio 2010

Una lettera di Moro al cardinale Siri: «La Chiesa resti con la Dc»

L’ apertura a sinistra era un prezzo da pagare per mantenere l’unità politica dei cattolici. Con questa argomentazione Aldo Moro, segretario politico della Dc, nel dicembre 1962 cerca di convincere il cardinale Giuseppe Siri, presidente della Cei, della necessità della svolta sancita alcuni mesi prima dal congresso di Napoli. È quanto emerge da una lettera che lo stesso Moro invia al cardinale, e pubblicata nel libro Siri, la Chiesa, l’Italia (Marietti 1820, pp. 418, 25 euro), una raccolta di saggi di vari autori dedicati all’arcivescovo di Genova, curata dal professor Paolo Gheda, che oltre a riportare numerose fonti inedite propone nuove ipotesi di lettura e di interpretazione sulla figura del cardinale genovese. Copia della lettera riservata di Moro a Siri è stata ritrovata da Gheda nell’archivio del cardinale Montini, che pochi mesi dopo sarebbe divenuto Papa. E dimostra che, al di là delle innegabili differenze di approccio alla politica italiana, i due arcivescovi più in vista dell’episcopato del nostro Paese in quel frangente agivano concordemente: nessuno vedeva di buon occhio l’apertura a sinistra – erano profondamente anticomunisti sia Montini che Siri come pure Giacomo Lercaro, l’arcivescovo di Bologna – ma tutti ritenevano che andasse salvaguardata l’unità politica dei cattolici nella Democrazia cristiana. E dunque concludevano, pur con accenti diversi, che l’alleanza tattica con i socialisti dovesse essere il prezzo da pagare per mantenere la centralità del partito cattolico al governo del Paese.
Moro, nella lettera, ribadisce a Siri, che la Dc ambisce a «esprimere, sul terreno politico, in modo unitario il mondo cattolico, riflettendone le fondamentali esigenze morali e religiose, assumendo la difesa, nella massima misura possibile, del magistero della Chiesa nella società civile». La scelta dell’apertura a sinistra, dunque, pur ancora discussa, è necessaria perché «non vi è, nell’attuale parlamento un’alternativa democratica alla presente formula di governo». Inoltre, l’apertura a sinistra – spiega ancora Moro al cardinale presidente dei vescovi italiani – favorisce «il processo di autonomia del partito socialista e il conseguente isolamento del partito comunista». Il segretario della Dc cerca di rassicurare Siri: il partito intende «accentuare la sua caratterizzazione di partito d’ispirazione cristiana ed il suo collegamento con quel mondo cattolico, dal quale essa sempre ha ritratto e continua a ritrarre, il contenuto dottrinale, alte ragioni ideali, la preparazione e la sensibilità dei suoi uomini più qualificati a tutti i livelli». Il contatto con la gerarchia non dovrà quindi appannarsi, ma anzi rinsaldarsi, proprio nella fase in cui sarà necessario dialogare «con forze di diversa ispirazione ideale».
Nella lettera riservata al cardinale di Genova, lo statista democristiano spiega che la Dc, grazie al suo stretto collegamento con la Chiesa, intende scegliere candidati graditi ai vescovi in modo da evitare «che seri rilievi d’ordine morale e religioso riguardo alle persone possono essere formulati» da parte ecclesiastica, «con l’effetto di creare difficoltà e disagio di coscienza per l’elettorato cattolico». E chiede di risolvere in modo diretto, unitario e tempestivo eventuali problemi al riguardo.
Il cardinale Siri attende diversi giorni prima di rispondere a Moro. Poi, il 12 dicembre, gli scrive, confermandogli di aver favorito «le buone disposizioni dei vescovi per un’azione che possa essere utile tanto al bene delle anime quanto al supremo interesse della Patria». Dunque Siri non si oppone, ma anzi rassicura Moro. Gli dice di aver esercitato la sua influenza sui vescovi per far loro comprendere le ragioni del segretario democristiano, che sulla scelta dell’apertura a sinistra si stava giocando la leadership nel partito.
Vale la pena di ricordare che alcuni mesi prima, all’inizio del 1962, il segretario democristiano aveva avviato una parziale consultazione nell’episcopato italiano sull’opportunità di aprire ai socialisti. Poco più della metà degli interpellati non appariva sostanzialmente sfavorevole all’ipotesi, anche se dal sondaggio erano state tagliate fuori intere regioni, come ad esempio la Liguria, il cui episcopato era presieduto da Siri. Meno di un anno dopo però Moro chiede proprio a lui un aiuto per far sì che i vescovi sostengano la scelta. Una scelta che, si evince dalla lettera del segretario Dc, era sostanzialmente di tipo tattico, un’alleanza strategico-elettorale, e non una condivisione di principi, ed era tesa a mantenere la centralità del partito democristiano.

Andrea Tornielli
www.ilgiornale.it