Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

mercoledì 13 ottobre 2010

Per la prima volta, 40 anni fa, comparve la sigla Brigate Rosse

«Il padrone non rinuncerà a seminare il terrore per fiaccare la nostra volontà di lotta, per dividerci (i padroni “illuminati” non per questo sono meno feroci) e per fare questo si servirà di capi e capetti spie mostri e ruffiani. Inutile spendere troppe parole, meglio dire subito che chi interviene o si adopera contro la lotta e gli interessi dei lavoratori è un nostro nemico e come tale va colpito». Era il 28 ottobre 1970, 40 anni fa esatti, quando quel giornale-tazebao apparve per la prima volta incollato ai muri di molte fabbriche milanesi. Sinistra proletaria era il nome della testata. Allora non diceva nulla neppure ai militanti dei gruppi rivoluzionari che stavano sbocciando dal fuoco del Sessantotto. Nessuno immaginava che dietro quella sigla si nascondesse una neonata organizzazione clandestina destinata di lì a poco a diventare tristemente famosa, le Brigate rosse, con la loro stella a cinque punte. Quel giorno iniziò ufficialmente una storia che avrebbe segnato tragicamente la nostra vita per diversi decenni. Con tanti morti e feriti, lutti e dolori, senza contare il danno politico, economico e psicologico inflitto al Paese. E che purtroppo non sembra ancora essersi chiusa. Rileggendo quelle frasi di 40 anni fa non può certo sfuggire la loro impressionante somiglianza con gli attuali proclami, per esempio, contro il giuslavorista Pietro Ichino o il segretario della Cisl Raffaele Bonanni.

In realtà, era cominciato tutto poco più di due mesi prima, in un ristorante-albergo di Costaferrata, sulle colline emiliane. Lì, nell’agosto del 1970, una trentina di giovani che avevano abbandonato il Pci di Reggio Emilia, dopo una breve parentesi nella comune rivoluzionaria dell’Appartamento, si riunirono a convegno con alcuni loro compagni di Trento e Milano per decidere il passaggio dalle «parole ai fatti», cioè alla clandestinità e alla lotta armata. Durò quasi una settimana, quella riunione. E agli abitanti del piccolo centro era sembrato un normale e pacifico congresso studentesco.

A loro, non certo al Pci, a cui non erano sfuggiti i movimenti dei suoi ex iscritti e aveva inviato sul posto un paio di uomini della sua intelligence, i quali riferirono poi parola per parola tutto quello che si era detto e deciso. E neppure alla polizia, che, concluso il convegno, mandò due suoi agenti a chiedere ai ristoratori (zii del futuro brigatista Tonino Loris Paroli) l’elenco completo dei partecipanti. Sapevano di Renato Curcio e Alberto Franceschini, di Corrado Simioni e Prospero Gallinari, di Mara Cagol e Lauro Azzolini… Insomma, Pci e ministero dell’Interno avevano avuto in tempo reale l’organigramma delle Brigate rosse. E chissà perché l’uno negò per almeno sette anni la matrice di sinistra dell’organizzazione terroristica (ammise ufficialmente che le Br erano «rosse» solo nel 1977); e l’altro «lasciò fare» sino al sequestro e all’assassinio di Aldo Moro (marzo-maggio 1978).

Ma questa è materia da demandare semmai agli storici, sempre che abbiano davvero voglia di cimentarsi con l’argomento, magari in un futuro. Nel frattempo, però, conviene almeno chiedersi perché il terrorismo politico in Italia abbia una longevità non riscontrabile in altri paesi europei (Irlanda del Nord e Spagna escluse) e se esistano aspetti della sua storia ancora da illuminare.

«Il fenomeno si è riprodotto continuamente nel corso dei decenni» osserva Giovanni Pellegrino, che ne ha a lungo indagato le cause alla guida di una commissione parlamentare. In effetti, se si esamina la parabola brigatista, si può notare che dal 1978 in poi, cioè dall’anno in cui le Br raggiunsero l’apice della loro popolarità con il sequestro Moro, nonostante i durissimi colpi subiti da parte dello Stato sono sempre risorte dalle proprie ceneri. E anche dopo lunghi periodi di silenzio all’improvviso sono tornate a colpire. O comunque si sono riorganizzate. Basti pensare che gli ultimi arresti risalgono a qualche mese fa. «La verità» spiega Pellegrino «è che non si è saputo davvero fare i conti con quella esperienza».

Almeno da due punti di vista: «Troppo semplicisticamente si è descritto il fenomeno in termini di pura criminalità, negandone un carattere politico-ideologico ed estraendolo dalla storia del Paese. E per questa stessa ragione non sono mai emerse aree di contiguità e quindi il terreno non è mai stato del tutto bonificato».

Aree della contiguità: cioè zone della politica, del sindacato e della cultura in cui le Br hanno sempre goduto di una forte simpatia, molto spesso anche militante. Il tema, da sempre uno dei cavalli di battaglia di Pellegrino, è ritornato prepotentemente d’attualità proprio nelle ultime settimane grazie a due libri che portano la firma di due magistrati da sempre impegnati in prima linea contro il terrorismo: il giudice romano Rosario Priore, con il suo Intrigo internazionale, e il procuratore generale della Repubblica di Venezia Pietro Calogero, conTerrore rosso , dall’Autonomia al partito armato.

Quest’ultimo, già nel 1979, quand’era alla procura di Padova, con la sua inchiesta passata alla storia con il nome «7 aprile», toccò un nervo scoperto: il rapporto fra i dirigenti storici di Potere operaio (e poi Autonomia), Toni Negri in testa, e le Br. Quello stesso Negri che ancora oggi incita alla rivolta parlando nei centri sociali e perfino nei salotti televisivi. Secondo la tesi investigativa, esistevano legami talmente stretti fra gli uni e le altre che addirittura si poteva individuare nella leadership autonoma il «cervello politico-intellettuale» dell’organizzazione militare brigatista. Questo ruolo, secondo Calogero, Negri e gli altri lo avrebbero svolto a Parigi, all’ombra di un istituto di lingue chiamato Hyperion, fondato nel 1974 da Corrado Simioni, uno dei partecipanti al convegno di Costaferrata. Ma la sua inchiesta naufragò: sabotato da insistenti campagne di stampa condotte da intellettuali di sinistra, gli inquirenti francesi, che avevano inizialmente promesso collaborazione, all’improvviso riabbassarono le saracinesche e il magistrato padovano non riuscì ad avere gli elementi che avrebbero provato le sue accuse.

Ora Calogero torna alla carica, rivendicando la giustezza della sua intuizione: «Tra Autonomia operaia e Brigate rosse c’era un’alleanza per un progetto comune, l’insurrezione armata contro lo Stato (o la “guerra civile di lunga durata”, secondo la terminologia di Negri), e per la realizzazione di questo progetto ciascuna organizzazione agiva con mezzi, forze e tattiche propri».

A dargli ragione sono altri due magistrati, Priore e il giudice veneziano Carlo Mastelloni, anch’essi impegnati per molti anni in inchieste di terrorismo e che, come Calogero, seguendo gli stessi fili, erano giunti alla stessa conclusione: Parigi e il legame che lì si era saldato fra Autonomia e Br. «I rapporti tra le due organizzazioni erano infiniti» conferma il magistrato romano. «C’erano casi addirittura di doppia militanza. L’esempio di Bruno Seghetti valga per tutti: era già un brigatista di spicco quando nel 1977, da leader autonomo, guidò il famoso assalto al palco dal quale parlava il leader Cgil Luciano Lama, all’Università di Roma». L’idea di un partito armato, dagli insurrezionalisti del Pci sino alle Brigate rosse, passando per i gruppi della sinistra extraparlamentare, era già dell’editore-guerrigliero Giangiacomo Feltrinelli e del suo sodale di allora, Negri. «Quando il primo morì a Segrate, nel 1972, quello stesso disegno lo ereditarono Autonomia e Simioni e si realizzò proprio all’ombra di Hyperion» aggiunge Priore.

Era dunque l’Hyperion, la famigerata scuola di lingue di Simioni a lungo protetta da un personaggio come l’Abbé Pierre, il «cervello politico» delle Br? Anche Mastelloni sembra non avere dubbi: «Quello che non è emerso sul piano giudiziario è il livello dei mandanti, dei meccanismi superiori che hanno alimentato il fenomeno del terrorismo. Hyperion era una struttura molto “intellettualizzata”, in grado di sfuggire alla capacità di comprensione dei carabinieri, della polizia e dei nostri stessi servizi, che all’epoca non avevano strumenti culturali adeguati».

Eppure, col passare degli anni, man mano che giornalisti e ricercatori accumulavano nuove e sempre più preziose informazioni, l’incredibile triangolo Parigi-Autonomia-Br ha continuato a essere protetto da un alone di indicibilità da parte di intellettuali, politici e persino giornalisti. L’accusa di dietrologia è piovuta inesorabilmente contro chiunque provasse a toccare quel filo, anche in presenza di inequivocabili indizi e testimonianze. Perché quel muro resta ancora oggi invalicabile?

Una possibile risposta è rintracciabile nelle audizioni parlamentari del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che dopo l’assassinio di Moro tornò alla guida dei nuclei antiterrorismo. Racconta Pellegrino: «Dalla Chiesa fece capire chiaramente che per disarticolare la rete logistico-militare delle Br utilizzò ambienti politico-intellettuali dell’area della contiguità. E in cambio delle informazioni ricevute si dovette pagare un prezzo di impunità». Grazie o a causa (a seconda dei punti di vista) di quel «patto del silenzio» si è dovuto «circoscrivere l’area della verità giudiziaria alle Br militari, lasciando fuori le fasce politico-intellettuali che le fiancheggiarono o le diressero» osserva Priore.

Si spiega così pure la ragione per la quale diversi magistrati un tempo impegnati sul fronte antiterrorismo oggi continuano ad affannarsi a spiegare che non c’è più niente da sapere, con ambienti giornalistici e intellettuali a far loro da grancassa? Altro tema da affidare agli storici. Ma intanto, riprendendo un concetto di Pellegrino, il terreno non è stato del tutto bonificato, la radice non è stata estirpata e il fenomeno tende a riprodursi. Quante analogie tra la cronaca di questi ultimi mesi e settimane e la situazione degli anni Settanta, con vecchi e nuovi cattivi maestri che continuano imperterriti a lanciare inviti alla rivolta e a impartire lezioni di «violenza antagonistica». È mutato il contesto storicopolitico, certo. «Ma questo non significa che non ci siano più le condizioni per un ritorno alla violenza: la patologia può riesplodere perché non è stata curata culturalmente» spiega Mastelloni.

Non si sono creati gli anticorpi. E le aree del disagio giovanile e di sofferenza sociale sono più che mai possibili prede di progetti violenti. Fotografa Guido Salvini, altro magistrato per anni impegnato a Milano sul fronte dell’eversione interna e internazionale: «Dal punto di vista sociale, l’evoluzione delle Br riflette quella del mercato del lavoro. Le biografie dei nuovi brigatisti ci parlano spesso di impiegati delle poste, infermieri, distributori di riviste, informatici… Cioè tutte le categorie di lavoratori precarie e frammentate di oggi. Questo significa che la proposta terroristica preme soprattutto sulle fasce con minori garanzie e più esposte alla logica del mercato, ove c’è incertezza e frustrazione. Il terrorista non è più l’operaio massa che viene dalle grandi fabbriche, ma è il brigatista del call center». E aggiunge, lui che ha lavorato proprio su quest’ultimo filone del terrorismo interno: «Attenzione, c’è spazio, ci sono condizioni per una nuova ondata di violenza. Perché i brigatisti hanno goduto di aree di solidarietà vaste, in cui possono riprodursi. Anche di recente ci sono state manifestazioni tutt’altro che simboliche di appoggio ai terroristi arrestati. La solidarietà è stata vissuta e visibile».

I cortei sotto le carceri per chiedere la liberazione dei neobrigatisti detenuti, la raccolta di fondi, le campagne di sostegno legale sono tutti episodi preoccupanti. Anche perché vanno ad aggiungersi ai tanti altri segnali che la cronaca più recente ha prodotto: dalle contestazioni violente alla festa del Pd a Torino e in altre città ai proiettili inviati con una lettera di minacce a Luciano Violante, sino all’episodio (certo ancora da chiarire per alcuni aspetti) che ha avuto per protagonista il direttore di Libero Maurizio Belpietro. Troppi per non vedere: sottovalutare o fare finta di nulla sarebbe davvero imperdonabile.

di Giovanni Fasanella
http://blog.panorama.it

Nessun commento: