Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

venerdì 28 ottobre 2011

Cioppa, quarant'anni di segreti di Roma e d'Italia

Elio Cioppa è un uomo d'azione. Lo si intuisce dai chewing gum che tiene sulla scrivania del suo ufficio in quantità industriali per sostituire le sigarette, e dal fisico asciutto che non riesce a tenere fermo nel completo giacca e cravatta nonostante la caldissima giornata di ottobre. Sospetto che abbia un grosso pistolone a tamburo nascosto nella fondina ascellare. Lui ride di cuore quando glielo confesso, e mi dice che dopo una vita di azione ora la sua è una attività di coordinamento. Ha un curriculum professionale impressionante speso in quarant'anni al servizio dello Stato, encomi solenni e molteplici ferite riportate in azioni di polizia. Ha arrestato decine di latitanti, i terroristi delle Brigate Rosse aprirono su di lui un fascicolo di raccolta informazioni, lo reputavano un nemico da eliminare.
Un viaggio che comincia nel 1967 a Bolzano con un giovane laureato in giurisprudenza, che dopo un periodo di pratica legale sente crescere lo stimolo per una attività più operativa che teorica, e affronta il concorso per vice commissario di Polizia...

“Esatto, questa è la mia storia. Iniziai il praticantato legale a Casal di Principe, quando l'aggettivo casalesi definiva esclusivamente gli abitanti di quel luogo e non una organizzazione criminale, anche se c'erano già problemi. In quel momento è nata la mia riflessione sull'importanza delle istituzioni, e ho deciso di entrare in polizia. Ho vinto il concorso come vice commissario, e sono stato spedito a Bolzano. Siamo a metà degli Anni '60, sono gli ultimi sprazzi del boom economico prima dell'inizio della contestazione”.

Invece il mio percorso prima di incontrarla è partito da internet, con un motore di ricerca. Ho digitato il suo nome e sa cosa è saltato fuori?

“Guardi, so dove sta andando a parare. Per questo ho deciso di scrivere un libro (Elio Cioppa, Quaranta anni di verità ABCOM EDITORE) al quale affidare, oltre ai principali eventi che hanno attraversato la mia esperienza quarantennale di poliziotto, anche la ricostruzione filologica di due fatti precisi per i quali sono stato letteralmente massacrato”.

Andiamo per gradi, dunque a Bolzano si distingue immediatamente: viene incaricato di scoprire gli autori degli attentati ai tralicci, gli autonomisti tirolesi. Incarico che svolge con rigore e adottando tecniche investigative per l'epoca rivoluzionarie.

“Sì, ma i miei superiori mi affidarono immediatamente responsabilità di ordine pubblico, scioglimenti di piazza, controllo di manifestazioni. Nel 1968 sono a Roma con l'incarico di funzionario all'ordine pubblico nel centro storico, dove si svolgevano tutte le proteste. All'inizio erano raggruppamenti di poche centinaia di persone, poi qualcosa cambiò. Il numero dei partecipanti aumentò a dismisura e arrivarono le bombe molotov: le famose bottiglie di birra riempite di benzina con lo straccio da incendiare, che venivano scagliate contro i reparti della polizia. Poi ci fu uno scatto in avanti: i manifestanti, i rivoluzionari, cominciarono a usare benzene e mercurio, una miscela esplosiva da militari. E poi ci tiravano addosso di tutto: sampietrini, arredo stradale. Una escalation di violenza per quegli anni inaudita. I nomi e i volti che coordinavano gli scontri, erano quelli che poi sarebbero passati alla storia come i leader degli "autonomi" romani: Scalzone, Baumgartner, Ardizzone”.

Dunque spingiamo un attimo in avanti la nostra macchina del tempo: dal '68 al '73 lei è addetto ai servizi di ordine pubblico a Roma. Viene gravemente ferito durante una violentissima manifestazione di autonomi che la porterà a una lunga convalescenza, poi passa al servizio antirapine e anche qui eccelle. Fa arrestare gli esecutori di alcune rapine che ancora sono vive nella memoria dei romani di lungo corso.

“Nel libro ho descritto le più clamorose. L'apporto del lavoro di investigazione fatto di pedinamenti e del paziente incrocio delle fonti era fondamentale, mica esisteva la prova del dna: la rapina al deposito dell'Atac, quella alla Centrale del Latte. Era un mondo criminale affollato da luoghi e personaggi che ora non esistono più: i confidenti, le donne della mala, i night club. Ma c'erano anche le sparatorie, gli appostamenti. Parecchi agenti hanno lasciato la pelle sulla strada in quegli anni”.

Transita all'Antisequestri, e qui raggiunge vette di eccellenza: libera industriali, armatori, costruttori. Riesce sempre a salvare l'ostaggio, spesso ha recuperato i soldi del riscatto. Anche in questo campo ha adottato tecniche di prevenzione e gestione dell'evento criminoso che sono poi diventate prassi nella gestione dei sequestri di persona, come impedire a qualsiasi costo che il riscatto venisse pagato. Una "linea dura" che diventerà un vero e proprio deterrente per i delinquenti. Però nella primavera del '78 qualcosa si inceppa...

“Il sequestro di Giovanna Amati. Il padre era il re dei cinema. Aveva parecchie sale a Roma, una vera e propria distribuzione cinematografica. Rapirono la figlia. Purtroppo ci furono una serie di incomprensioni con la famiglia, io ero orientato ad adottare la mia linea dura, che voleva dire impedire a qualsiasi costo il ritiro del riscatto da parte dei sequestratori. Accadde un incidente e i malviventi fuggirono con i soldi durante il pagamento del riscatto. I giorni successivi i giornali mi attaccarono senza tregua: ero il responsabile del fallimento. E qui accadde qualcosa che non mi sarei mai aspettato, fui abbandonato anche dal mio diretto superiore il dottor Masone capo della Squadra mobile che addossò al mio comportamento tutte le responsabilità. Vengo trasferito dal questore per "incompatibilità" a dirigere un presidio di periferia, il Commissariato Prenestino. Uscirono strilli sui giornali a otto colonne. Avevo quarant'anni, ero il Vice capo della Squadra mobile e venivo trasferito senza alcun motivo apparente. Siamo a giugno del 1978 (le sottolineo il mese e la data per un motivo che dopo sarà evidente). A questo punto un giorno casualmente mi sento al telefono con l'Avvocato Ortolani, del quale ho salvato il figlio da un rapimento. Ortolani voleva ringraziarmi, domandò per quale motivo mi avessero delocalizzato in una zona di Roma così periferica e se poteva fare qualcosa. Io gli risposi che in quel momento l'unico mio interesse era tornare alla Squadra mobile. Lui mi rispose che l'unica maniera era iscriversi alla Loggia Massonica P2. Qui avrei trovato persone in grado di aiutarmi. Io ribadii solamente che volevo riottenere quello che mi era stato sottratto ingiustamente. Lui disse che mi avrebbe presentato Licio Gelli. Incontrai Gelli in un noto albergo romano che era la sua base operativa. In seguito l'ho rivisto una volta sola e per motivi investigativi”.

Dunque, lei sta affermando una versione dei fatti che contraddice sostanzialmente l'unico documento ufficiale in merito. Le dichiarazioni da lei rilasciate alla Commissione Anselmi sulla P2. Lei sostenne davanti a una commissione parlamentare incredula, di non essersi mai iscritto alla P2, e di non aver mai ricevuto la tessera. Invece lei ora afferma il contrario, e addirittura di essersi iscritto per mezzo di Ortolani che era il braccio destro di Gelli.


"Guardi, comprendo benissimo come ciò muti la mia posizione, ma ci sono due motivi. Punto primo, io non avevo assolutamente contezza di cosa fosse la P2. Ero un umilissimo poliziotto e funzionario dello Stato. A me interessava esclusivamente riottenere il mio posto di lavoro. Quando fui interrogato dalla Commissione Parlamentare di inchiesta affermare di appartenere alla P2 significava essere appestati. Dopo il ritrovamento degli elenchi degli iscritti a marzo del 1981, si parlava addirittura di destituzioni di massa e perdita di ogni funzione per tutti i dipendenti dello stato appartenenti alla P2. Si parlò di stato parallelo, di golpe. Stavo per essere schiacciato in un meccanismo a me totalmente ignoto. Fu una reazione di auto difesa. Sottolineo, però che la data della mia iscrizione è settembre del 1978. Il sequestro Moro si è tragicamente concluso a maggio”.

Ora facciamo un salto indietro. 16 Marzo 1978, Aldo Moro viene rapito, il 9 maggio viene ucciso.

“Sì, io trovai il corpo in Via Caetani. Il questore De Francesco a seguito di una telefonata ricevuta mi disse di raggiungere immediatamente via Caetani per verificare la telefonate delle BR che asserivano di aver lasciato il corpo dell'onorevole all'interno di una Renault 4. Mi precipitai con i miei uomini, e dopo aver verificato che non ci fossero fili che potessero far sospettare l'esistenza di esplosivi si procedette all'apertura del cofano. C'era il corpo di Moro, la figura era composta, le mani incrociate sul petto. C'era una quantità di bossoli sia sul torace che sulle gambe. Confermai al questore che si trattava di Moro. Il questore mi ordinò di andare a prendere la signora Moro. A questo punto accadde una cosa insolita: il cofano era stato richiuso. Arrivarono i politici, il primo fu Cossiga e poi tanti altri del del partito comunista. A tutti i costi vollero che fosse chiamata la Scientifica, anche se io spiegai che la macchina era stata già aperta. Si collocarono ad aspettare in una chiesa lì vicino, mentre gli esperti facevano il loro lavoro. E' un fotogramma della mia vita che non potrò mai cancellare”.

Ora facciamo un secondo salto indietro, durante il sequestro Moro la polizia effettuò una perquisizione in uno stabile di Via Gradoli, dove sia chiaro Moro non è mai stato rinchiuso, ma che ospitava un covo fondamentale delle BR, quello che poi si allagò per una curiosa perdita d'acqua. Il brigadiere a cui fu ordinato di perquisire tutte le abitazioni a una di esse bussò tre volte e andò via. Gli era stato ordinato di tornare nel caso in cui nessuno rispondesse e addirittura di sfondare le porte. Invece lui se ne andò e basta. Ebbe una esitazione fatale, che avrebbe potuto cambiare la storia d'Italia probabilmente...

“Sì. Ma io sono completamente estraneo a questi fatti. Il brigadiere, di cui non facciamo il nome anche se è tutto agli atti, in un mini appartamento di Via Gradoli durante una perquisizione trova una certa Lucia Mokbel che io avevo precedentemente attenzionato per altri uffici di polizia. Lei riferì che la notte sentiva un ticchettio proveniente dall'appartamento vicino, che somigliava all'alfabeto morse. Invitò quindi il brigadiere a riferirmi il tutto, ma il brigadiere le chiese di venire da me di persona. Lei si rifiutò e allora, sempre su consiglio del brigadiere, scrisse tutto su un foglietto che poi lui mi avrebbe dovuto consegnare. A me non arrivò mai nulla. Fatto sta che i suoi vicini erano due primule rosse delle BR, nascosti sotto falso nome. Mentre bussava aspettavano dietro alla porta con il colpo in canna. A me non fu mai consegnato nessun biglietto, e nulla seppi fino a quando i fatti non cominciarono a montare sui giornali spinte da qualche "avvocaticchio" della sinistra. Qualcuno insinuò che io avessi ricevuto un ordine superiore...”.


Lei ha querelato il quotidiano l'Unità per questa affermazione, e ha vinto la causa civile che ha preferito concludere con una smentita apparsa sulle pagine del quotidiano come risarcimento.

“Esatto. Non solo non c'è nessuna prova di una infamia simile, ma neanche i fatti storici coincidono. La storia è stata completamente distorta a mio sfavore. Ma le pare che se io avessi avuto una notizia simile non sarei andato a fare un accertamento di persona? Per questa volgare calunnia, non sono mia stato interrogato dalla Commissione Moro che praticamente ha sentito anche i barbieri, me lo lasci dire. Chiesi ripetutamente ai magistrati che si occupavano della strage di Via Fani di essere ascoltato, ma risposero che era completamente inutile perché la verità era evidente. Addirittura alcuni giornalisti hanno scritto che io ero a capo del Sisde a Roma, mentre venni chiamato ad allestire un ufficio come "capocentro 2" ma mesi dopo il sequestro Moro in Piazza Barberini, dove non c'erano neanche le sedie e i tavoli. Le confesso che accettai perché la gratifica era doppia rispetto all'incarico in polizia e per cominciare qualcosa di nuovo. Questa è l'unica verità. Consideri che ho concluso la mia carriera con un incarico che era il minimo sindacale rispetto al mio curriculum, per quello che avevo dato alla divisa. A cosa mi sarebbe giovato un comportamento simile di omertà e insabbiamento? Se avessi saputo in qualsiasi maniera che in quell'appartamento c'erano due terroristi che sapevano qualcosa del sequestro Moro sarei andato ad ammanettarli personalmente!”.

“Il libro prosegue con una galoppata, che da Ostia la porterà a dirigere l'Ufficio Stranieri per poi concludersi in Sardegna a Nuoro, dove lei va a occuparsi di sequestri di persona, uno fra tutti il famoso caso Melis.

Sì ma non possiamo raccontare tutto il libro! In duecento pagine i lettori troveranno i nomi dei criminali che eccellevano nel loro ramo e le loro performance. Li ho arrestati quasi tutti”.

Allora concludiamo con un salto nel presente. Sabato 15 ottobre scorso, lei ha visto la manifestazione di piazza con i tragici fatti, sembrava una guerra civile. Come è stata secondo lei la gestione della piazza?

“Guardi, io non posso criticare l'operato di altri funzionari. Il mio rapporto con l'amministrazione è quello che il prete ha con la chiesa: eris sacerdos in aeterno. Dopo aver detto ciò non capisco perché spesso i reparti vengono tenuti letteralmente fermi a fare da bersaglio dei manifestanti più violenti, ma non posseggo tutti gli elementi per giudicare eventi così complessi dal punto di vista politico”.

di Patrizio J. Macci

www.affaritaliani.libero.it

venerdì 7 ottobre 2011

«Moro il giusto e l'ultima tentazione»

Il fantasma si manifesta a Montecitorio, attraversa l’emiciclo, raggiunge il banco del governo e apre la giacca della grisaglia in modo da mostrare la camicia crivellata di colpi, il petto macchiato di sangue. Non dice una parola, fino a quando il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, non prova a trattenerlo. «Noli me tangere<», risponde Aldo Moro prima di scomparire per l’ultima volta. Si conclude così, con una citazione evangelica che ha il tono dell’enigma, Altare della Patria (il Saggiatore, pagine 180, euro 14,00), il libro con cui Ferruccio Parazzoli torna, per la seconda volta in pochi anni, sul dramma di Aldo Moro. Il volume attuale, infatti, incorpora il testo di Adesso viene la notte, apparso nel 2008, e lo integra con un nuovo pannello narrativo. Una ripresa che va di pari passo con la riproposta della Trilogia di Piazzale Loreto, in uscita negli Oscar Mondadori (pagine 330, euro 9,50). In Adesso viene la notte il protagonista era Paolo VI, messo alla prova dal rapimento e dalla morte di Moro, l’«uomo buono e onesto» per la cui incolumità il Papa si era rivolto direttamente alle Brigate Rosse in una lettera rimasta memorabile. Ora al centro della scena troviamo lo stesso statista, inutilmente circuito da Satana con la promessa di una salvezza disonorevole. Un cambio di prospettiva, forse addirittura un pentimento rispetto alla stesura originaria?
«Direi piuttosto un senso di colpa – risponde Parazzoli –. Mi sono reso conto di aver rappresentato Moro soltanto come vittima, ma questo non mi è parso giusto, né sufficiente. Perché, se ci pensiamo bene, il vero protagonista del dramma è lui, il dilemma etico che lo riguarda è ancora più grande della sfida (che avevo ipotizzato in precedenza) tra Dio e il Diavolo per saggiare la fede del Papa».
È la scommessa che sta all’origine della vicenda di Giobbe.
«Esattamente. In Altare della Patria, invece, tornano gli interrogativi sul sacrificio di Isacco. Il confronto a distanza è tra Kant e Kierkegaard. Il primo era convinto che Abramo si fosse sbagliato: la voce che aveva sentito non era quella di Dio, perché Dio non lo avrebbe mai invitato a uccidere il figlio. Per il pensatore danese, al contrario, non c’era stato nessun errore. Secondo lui Abramo aveva davvero sentito la voce di Dio, un Dio che pare porsi al di là dell’etica per costringere l’uomo a misurarsi con il paradosso della fede».
Moro però muore veramente, nessun angelo scende dal cielo a salvarlo…
«Perché dopo Isacco viene Cristo, che scardina ogni convinzione consolidata. Non per niente nel mio racconto immagino che, come Gesù, anche Moro sia condotto da Satana sul pinnacolo del tempio, che in questo caso è il tempio della Stato. Il Vittoriano, l’Altare della Patria. Lì il tentatore tenta e il giusto resiste alla tentazione, consegnandosi al tradimento e alla morte».
La sua è un’interpretazione estrema, se ne rende conto?
«Può darsi, ma mi stava a cuore ridare centralità a una figura come quella di Moro, che rimane inespressa, e quindi incompresa, nella storia d’Italia. La sua prosa aveva fama di oscurità, ma rileggendo il suo ultimo discorso ho riscoperto un testo di densità oracolare, nel quale c’è tutta l’angoscia di un uomo che parla nella consapevolezza di non poter essere compreso. Anche lui, come papa Montini, stava cercando di dire e di fare qualcosa di nuovo, rompendo una sorta di crosta che gravava sulla società italiana. Operazione pericolosa, come si è visto. Mortalmente pericolosa».
Il suo racconto è molto documentato, ma l’interpretazione è poi risolta in chiave visionaria. Come mai?
«Già Wittgenstein sapeva che i fatti, di per sé, sono soltanto fatti. Siamo noi che attribuiamo loro un senso, attraverso un procedimento che è solo in parte razionale e per il resto è innervato di emozioni, di percezioni impossibili da giustificare per via logica. Illudersi che i fatti bastino a sé stessi è la grande eresia del nostro tempo, quel nichilismo debole, oggi così diffuso, che induce a non affaticarsi nella ricerca di senso, perché intanto un senso non c’è. Questo, almeno, è quello di cui ci vorrebbero convincere».
Ed è qui che entra in gioco la visione?
«Sì, il compito della letteratura sta nello scandagliare, destrutturare e interpretare la realtà con uno sguardo dall’alto. Ma questo non significa far calare uno schema precostituito o una soluzione aprioristica. C’è da correre un rischio, ancora una volta, fosse pure il rischio di essere fraintesi».
Si riferisce al fatto che «Altare della Patria» potrebbe essere letto come un libro politico?
«Beh, è quello che mi auguro. Vede, si continua a ripetere che l’Italia di oggi è figlia degli anni Ottanta, il periodo del cosiddetto riflusso. Ma a spazzare via tutto, a produrre il ribaltamento dei valori e il degrado della convivenza è stata semmai la stagione di sangue degli anni Settanta. Quella che ha in Aldo Moro la sua vittima designata. Da oltre trent’anni, infatti, facciamo di tutto per dimenticarla».


Alessandro Zaccuri
www.avvenire.it