Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

lunedì 16 gennaio 2012

Identità europea, la visione pluralista di Aldo Moro

La riscoperta dell’identità nazionale (uno degli esiti almeno in parte inattesi delle celebrazioni del 150° dell’Unità) si è accompagnata con una rivisitazione critica del concetto stesso di identità non solo in Europa ma a livello globale. La crisi mondiale ha svolto un ruolo di acceleratore, ma la radice va ricercata altrove, all’interno delle nostre società.
L’Europa ha assistito impotente alla messa in discussione dei due modelli di integrazione che – da prospettive opposte – erano sembrati rappresentare per lungo tempo la risposta all’esigenza di dare all’identità collettiva connotati che ne riflettessero in maniera aperta e tollerante tutte le componenti.
Lo schema “francese”, basato su una forte spinta centralizzatrice e sulla proposizione di un modello socio-culturale egemone, ha conosciuto la stessa crisi di quello “anglosassone” in cui la rinuncia a proporre un modello di riferimento univoco postula l’autonomia delle diverse componenti della società, in condizioni di sostanziale separatezza. Massima concentrazione in un caso – l’identità passa attraverso l’accettazione di valori “nazionali” univocamente definiti – e massima separazione dall’altro – ciascuna componente persegue autonomamente il proprio canone, con l’unico vincolo dell’ “omaggio al sovrano” e della legge dello Stato – ma l’uno e l’altro hanno cessato di fornire la risposta che da essi si era cercata. Né altre l’Europa è stata in grado di darsene.
Per quella piccola parte dell’umanità che ha esercitato per un paio di secoli un peso sproporzionato, e che coincide con larga parte dell’Europa continentale e con parti del continente americano e dell’Asia, sono venuti al pettine nodi che toccano l’essenza del suo modo di essere. L’applicazione generalizzata di benefici mai prima di allora goduti, dall’istruzione gratuita, all’assistenza sanitaria generalizzata, al sistema di garanzie fornito dall’economia sociale di mercato, era considerata la naturale espressione di democrazie fondate sul primato dell’individuo.
La crisi ha prefigurato un futuro in cui democrazia rappresentativa e diritti di libertà, non vorranno più dire automaticamente accesso a reti di sicurezza socio-economiche in grado di garantire una qualità crescente della vita. E così, alla crisi delle garanzie è seguita una messa in discussione strisciante dei valori di riferimento.
La globalizzazione dei fenomeni politici, e non solo economici, ha fatto sì che quelli che l’Occidente riteneva valori universali – pur essendo essi in qualche modo espressione della weltanschaung dei costruttori dell’assetto seguito alla seconda guerra mondiale – siano stati considerati altrove come manifestazioni di modelli la cui attrattiva è, in parte almeno, mediata dalla convinzione che portano con sé forme di prevaricazione culturale, in qualche modo pre-politiche.
Incertezza e paura sono diventati fenomeni trasversali del malessere delle nostre società: i fratelli mussulmani nella “primavera araba” come talune suggestioni localistico-intolleranti in realtà a noi più vicine? Il paragone è provocatorio, ma il tema merita attenzione.
Davanti a questa crisi di modelli di società ritenuti a lungo insostituibili – ed alla scomparsa insieme con il crollo del Muro di alternative prima ritenute possibili – torna alla mente la lezione di Aldo Moro. Egli vedeva nell’identità nazionale il punto di incontro dinamico di realtà diverse, che intanto possono stare insieme in quanto gli venga riconosciuta pari dignità. Moro non avrebbe insistito per imporre il parametro delle radici culturali cristiane dell’Europa come fondamento costituzionale ineliminabile: egli aveva piena coscienza in forza del suo percorso politico e della sua formazione, del valore di una tradizione al cui interno convivevano l’influenza greca, quella romana, quella laico-illuminista e anche quella, non meno importante, dell’Islam.
La rivisitazione della vicenda risorgimentale si è svolta al di fuori tanto dai residui della sovrastruttura retorica del periodo successivo l’indipendenza – quando la necessità di dare corpo all’idea fondante di nazione prese a volte il sopravvento sull’analisi storica – quanto dalle distorsioni strumentali del periodo fascista, mentre la rinnovata presa di coscienza dell’eredità della Resistenza come secondo mito fondante dell’identità, si è accompagnata ad una lettura sempre più condivisa di una fase comunque drammatica della nostra esistenza.
È un paradosso che, al tempo stesso, abbiano potuto prendere corpo letture della storia del nostro paese, che solo nella paura – aldilà dell’interesse tattico contingente – trovano spiegazione.
Non paura fisica, beninteso, bensì disagio nel fare i conti con una realtà i cui confini si fanno vieppiù angusti e cresce la tentazione di abbandonarsi al valore consolatorio di una dimensione diversa e illusoriamente salvifica. La storia non c’entra: i legami che uniscono Venezia a Bari - per fare un esempio – sono assai più profondi di quelli che la uniscono a Torino. Nel primo caso, c’è una vicenda plurisecolare di contatti; nel secondo una totale alterità, cui si vorrebbe sostituire una nuova matrice comune fondata sulla convenienza economica.
La crisi dell’identità nazionale si è accompagnata – in quella che fu l’Europa dell’Atto Finale di Helsinki – ad un processo difficile e violento in molti modi paragonabile alla decolonizzazione della seconda metà del XX secolo. La fine dell’Unione Sovietica ha posto fine al cemento ideologico che teneva uniti, sotto un vincolo autoritario, popoli e paesi la cui storia era spesso lontana da quella della potenza egemone.
Con il risveglio al loro interno, dopo un letargo quarantennale, di idee a volte intolleranti ed esasperate di nazione, si è innescato un processo violento di affrancamento da una dipendenza non più giustificata dalla storia. Si è trattato di fenomeni ben diversi dalle spinte autonomistiche a noi più vicine: quello della Cecenia o della Moldova – per citare due esempi – è stato un movimento di liberazione da una vera soggezione coloniale. Quella della Padania è una costruzione astratta, riferita ad una realtà di cui essa è parte costituente, ancorché non esclusiva, e rispetto alla quale non esistono davvero dipendenze o imposizioni coloniali. Il rischio di derive dettate dall’incultura politica non va tuttavia sottovalutato.
Il rapporto fra identità e autonomia è centrale tanto nel contesto dell’identità nazionale, come in quello più ampio dell’identità europea e vi è, fra i due, un nesso di causalità evidente. Dal riconoscimento che il tessuto connettivo europeo costituisce il riferimento insostituibile di valori propri di quella “piccola parte del mondo” di cui prima si parlava, discende la possibilità di articolarli al suo interno in modi che contribuiscano a determinarne la ricchezza.
A condizione, naturalmente, che il tessuto connettivo europeo sia davvero condiviso: è per tale ragione che lascia perplessa la tendenza, alimentata in primo luogo da quanti rivendicano maggiori libertà in nome dell’autonomia, a considerare l’Europa come una struttura autoritaria ed eterodiretta, imposta da un “alto” indefinito ad una “base” in cui solo risiederebbe la vera legittimazione democratica. Il supposto “deficit democratico” delle istituzioni europee è in larga misura nominalistico, poiché nessuna di esse è imposta da autocrati distanti, ma è espressione della volontà democraticamente espressa dei paesi membri.
La correlazione positiva fra identità nazionale e dimensione europea, in cui l’una si integra e completa l’altra senza porsi reciprocamente in discussione, è il modo in cui meglio potranno svilupparsi le autonomie.
Nell’ “Europa delle regioni” le realtà sub-nazionali potranno svilupparsi pienamente, arricchendo la costruzione d’insieme. Ben diverso ed assai più asfittico sarebbe un disegno in cui la disgregazione degli stati nazionali dovesse accompagnarsi all’affermazione di una pluralità di realtà sub-nazionali, prive di respiro e a volte di storia, tendenzialmente conflittuali e tali da indebolire fortemente un tessuto connettivo, che proprio da questa costruenda dimensione di unità nella diversità, potrebbe trarre motivo di forza e di credibilità internazionale.
Moro aveva ben presente l’importanza del disegno europeo, non solo come stimolo e baluardo rispetto alla complessità e fragilità del quadro politico italiano, ma come luogo in cui costruire un quadro di reciproca comprensione fra i popoli del continente. Egli era certamente lontano dalla visione spinelliana di una “nazione europea”, come attore forte sulla scena mondiale, ma aveva fortissimo il convincimento che, quello dell’integrazione europea, fosse un processo fondamentale per creare una koiné di valori condivisi e por fine - come disse - «(al)le differenze e le rivalità…che furono all’origine di due guerre mondiali». Il processo nella sua visione sarebbe dovuto partire dal basso, dai popoli prima ancora che dai governi, in una Europa in cui avrebbe potuto trovare posto anche la Turchia. Non per ragioni di convenienza economica o di interesse geo-politico, ma perché dell’identità europea allargata essa aveva più che solide ragioni di entrare a far parte.


di Antonio Armellini

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