Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

martedì 8 maggio 2012

Il caso Moro a trentaquattro anni dall'assassinio

Trentaquatttro anni fa veniva assassinato, dalle B.R., dopo cinquantacinque giorni di sequestro, di “prigionia nel carcere del popolo”, Aldo Moro.
    Trentaquattro anni non sono bastati a dissipare lati oscuri di questa tragica vicenda, a spazzar via la tendenza, subito manifestatasi, a farne oggetto di elucubrazioni dietrologiche, trascurando, magari, riflessioni e deduzioni semplici e lineari da dati certi ed incontestati.
    Soprattutto appare oggi sconcertante che siano rimaste intatte certe frettolose interpretazioni manifestamente strumentali, fabbricate sin dai primi giorni dopo la clamorosa operazione di cattura da parte delle B.R. Moro che “è un’altra persona” dopo che si trova nelle mani dei terroristi; e l’impossibilità, subito data per certa, di trovare concreti spiragli per una trattativa per la salvezza del rapito, ed ancora altre proposizioni. Esse non hanno subìto autentica revisione critica.

    Poco o nulla si è scandagliato il terreno assai complesso delle diverse posizioni emerse all’interno dell’organizzazione terroristica sullo sbocco da dare all’”operazione” ed, in particolare, sull’esistenza di una consistente frazione che avesse sostenuto il rilascio di Moro, una conclusione diversa dall’assassinio.
    Si è invece divagato sulle dietrologie. In particolare si è fatto oggetto di discussioni ipotesi di interferenze o, addirittura, di regie straniere, dando ad esse credito, fino a fare pressoché un articolo di fede, per certi settori della Sinistra, alla meno probabile tra le ipotesi di questi interventi di servizi stranieri. Quella della “vendetta” della C.I.A. per avere Moro strenuamente sostenuto il “compromesso storico”, l’alleanza tra D.C. e P.C.I.
    Ma, soprattutto, si è omesso di cercare la risposta a certi interrogativi nelle logiche cui obbedì il comportamento dei brigatisti, per correre dietro a fumose e contraddittorie ricostruzioni ideologico-giudiziarie.
    Gli anni che sono trascorsi da quegli avvenimenti hanno visto l’evolversi della storia del nostro Paese in termini tali che, in effetti, elementi di riflessione e di raffronto di entità e valore determinanti si sono venuti ad aggiungere a quelli di chi poté disporre, ad esempio, Leonardo Sciascia, che ha fornito le riflessioni e le interpetrazioni, tutto sommato, più penetranti ed originali sul “Caso Moro”.
    In particolare “Mani Pulite”, la fine della “Prima Repubblica”, il franamento della Democrazia Cristiana e del sistema di potere da essa instaurato con il meccanismo delle alleanze, hanno consentito di individuare elementi di fragilità di quel sistema politico che la durata trentennale di essa, maturata allorché il Presidente della D.C. divenne bersaglio dei terroristi, non aveva lasciato percepire, benché quasi tutto consenta di ritenere che già allora esso non fosse inimmaginabile né che dovessero ancora maturare le cause del colasso.
    Un franamento del sistema politico D.C. senza un cataclisma che, al contempo, spazzasse via il “mondo occidentale”, il Patto Atlantico, i “regimi liberi”, non era allora nei piani e nelle previsioni di nessuno o almeno, non aveva consistenza tale da rappresentare una reale alternativa politica.
    Ciò comportava che anche l’obiettivo dell’operazione terroristica del sequestro Moro non era facilmente e chiaramente configurabile come quello che potesse provocare una sorta di “effetto domino” sul regime italiano, democristiano che, un effetto poco più di dieci anni dopo eventi assai meno eclatanti avrebbero determinato.
    Il Muro di Berlino sembrava destinato a dividere il mondo in due parti opposte ancora per almeno un secolo, salvaguardando anche l’esistenza dei sistemi politici conseguenti e “compatibili” con l’una e l’altra parte.
    Così il “processo” che le Brigate Rosse intentarono ad Aldo Moro, fu, sostanzialmente quello fondato sulla contestazione di essere un uomo politico occidentale. Magari di un Occidente un po’ ambiguo, contraddittorio ed equivoco, quale quello della D.C., del Vaticano, del “compromesso storico”, con le relative “zone d’ombra” che certi equivoci hanno determinato (e determinano)  con la concretezza e con i miti delle “stragi di Stato” che contribuirono a produrre e sciaguratamente “coprire” o lasciar intendere che fossero “coperti”.
    C’è da dire che anche in fatto di “stragi di Stato”, espressione allora assai di moda in certi ambienti della Sinistra, il “processo” intentato a Moro dalle B.R. non ottenne un qualsiasi risultato apprezzabile.
    La conclusione (Comunicato n. 6 delle B.R.) della “colpevolezza” di Moro quale esponente dello “Stato imperialista delle multinazionali” e delle nefandezze ad esso ascrivibili etc. etc, era, dunque, quella di un nulla di fatto, un buco nell’acqua, posto che si trattava di attribuzioni “naturali” ad uno Stato “borghese” secondo il trito linguaggio da manuale di marxismo-leninismo per aspiranti guerriglieri.
    Oggi si stenta a credere che, avendo tra le mani un esponente “nemico” del calibro di Moro, come Moro determinato a non lasciare intentata alcuna via che lo portasse a salvarsi la vita, i carcerieri non abbiano saputo cavarne che quella grottesca “ammissione” sul carattere “antioperaio” del regime, su “Gladio”, secondo gli schemi della loro approssimativa cultura pseudomarxista, tralasciando i tanti “misteri”, le tante vere o presunte pagine del gran libro della corruzione, del quale il Paese conosceva o intuiva l’esistenza e rispetto alle quali la reattività della gente era assai più sensibile ed, anzi, pronta a quelle generalizzazioni che poi sono diventati i più rilevanti e radicati convincimenti del “credo” popolare.
    Ma, allora, ammettere ciò avrebbe rappresentato per gli uomini della B.R. e delle altre organizzazioni terroristiche qualcosa di più di una dichiarazione di fallimento. Essi avrebbero dovuto ammettere che lo stesso presupposto della loro avventura eversiva era totalmente sbagliato, che anche in quello che si ostinavano a credere fosse il proletariato in attesa di prendere le armi per la rivoluzione, prevalevano sensibilità e “miti” piccolo-borghesi, e che anziché lo squillo della rivolta di classe, la gente attendesse  materia per le sue intemerate moralistiche.
    Né si può dire che il problema della corruzione non fosse ancora rilevante e largamente avvertito. C’era stato il caso Lockheed per il quale proprio Moro aveva in Parlamento pronunziato un discorso durissimo, che giustamente Leonardo Sciascia riportò nel suo libro sull’Affaire Moro, come il discorso sull’”innocenza della D.C.”.
    Ed è singolare che, invece, Moro si attendesse che il  “processo” che i terroristi si accingevano ad intentargli avrebbe fornito con avere per oggetto storie di potere e di corruzione.
    Che a cosa alludeva Moro (lettera a Zaccagnini) quando scriveva… “sono sottoposto ad un difficile processo politico del quale sono prevedibili sviluppi e conseguenze” e quel che lasciava intendere nella lettera (la prima) a Cossiga, lettera il cui contenuto che Sciascia così sintetizza: … “il processo è per ora politico… diventerà più stringente quando si passerà a quei fatti specifici che investono specifiche e personali responsabilità… in cui mi si può indurre a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa”?
    Questo pensava Moro, ed, in fondo lo sperava. Sperava che fosse evidente ai suoi amici della D.C. (che presto sarebbero diventati suoi nemici) che avrebbe potuto essere indotto a rivelare cose “sgradevoli e pericolose”. Sul loro conto. Cose che la ragione di stato, quella in nome della quale, in buona sostanza, aveva imbastito il suo discorso in difesa di Gui, a quella che ora veniva sbandierata dal “partito della fermezza”, oltre che il tornaconto personale, avrebbero consigliato non si giungesse mai al punto che fossero pronunziate e proclamate.
    Anche semplicemente proclamate, perché con un minimo di abilità sulla base di una semplice discreta informazione su eventi di corruzione che già avevano incrinato la tranquillità della vita del regime, le B.R. avrebbero potuto attribuire a Moro quello che avesse voluto, ammesso che, per salvarsi la vita, non fosse indotto a collaborare così attivamente con i suoi carcerieri.
    Si andava consumando così in quei giorni la rappresentazione, al contempo sperata, temuta, ignorata, del dramma del “pentitismo” di cui di lì a poco si sarebbero avute le prime avvisaglie con le inchieste per i crimini del terrorismo, per dilagare poi in modo dirompente negli anni ’90 nei processi per mafia. Nei quali pure non sono mancate, da parte dei media, le attribuzioni ai pentiti di dichiarazioni più specifiche e maliziose di quelle che pure erano disposti a fare. La differenza era però nell’atteggiamento di chi quelle dichiarazioni avrebbe dovuto riceverle. Le B.R. non sapevano che farsene e non volevano doverne fare qualcosa di dichiarazioni “capaci di far scandalo”. I pentiti attaccano inesorabilmente l’asino dove vuole il padrone, non subiscono una autentica pressione.
    Figuriamoci quando il padrone può farne tranquillamente e volentieri a meno delle loro dichiarazioni.
    Molti, poi, riconobbero che grande era stato il pericolo che allora corse la nostra Repubblica. Lo dissero quanti avevano condiviso le responsabilità del “partito della fermezza”, pericolo, essi lasciano intendere, di farsi coinvolgere e travolgere negli sviluppi di una trattativa che pure avrebbe conferito alle B.R. l’unica cosa che esse cercavano: il ruolo di parte combattente, di interlocutore armato dello Stato.
    In realtà il pericolo più grave e incombente fu quello che in realtà le stesse B.R. non vollero e non seppero far correre al sistema politico della D.C., approfittando del “processo” a Moro per rappresentarne al Paese il marciume, la corruzione, le doppiezze che Moro avrebbe potuto “confessare” o che avrebbero potuto essere attribuite come contenuto delle sue dichiarazioni.
    Immaginare una sorta di “Mani Pulite” anticipate di una dozzina d’anni, provocate da un simile “processo” è, come tutte le ipotesi di un diverso corso della storia, in gran  parte vana esercitazione di fantasia.
    Certo è però che allora affiorarono crepe del sistema, rappresentate dalle stesse paure di molti uomini politici, dalla fretta in cui la manifestarono, proclamando Moro “inattendibile”, malgrado la stessa “delusione”, largamente avvertita, anche fuori degli ambienti ai terroristi più vicini, dell’inconcepibile inconcludenza del “processo” a Moro.
    E fu una sorta di beffa della sorte e della storia che quella tragica anticipazione di un pericolo destinato ad essere poi riconosciuto simile a ciò che fu poi “Mani Pulite” dovesse consumarsi sulla vita di una persona che nel dibattito Parlamentare sulla messa in stato d’accusa di Gui aveva pronunziato quel discorso di sdegnata ripulsa dell’accusa, consistente in quel sillogismo, degno del grande “sofista di Stato” che Moro,  che uomo di Stato non fu, deve essere considerato. La D.C., Egli aveva detto in sostanza, è dal voto popolare e dalla storia costituita detentrice del potere. La D.C. è dunque innocente. Gui è democristiano ed è quindi innocente. E’ significativo che Leonardo Sciascia, che non arrivò a vedere “Mani Pulite”, ma che aveva colto tutte le logiche che le resero possibile quell’evento ed al contempo così a lungo lo ritardarono, premettesse quel discorso di Moro al bellissimo e terribile libretto che dedicò alla sua drammatica fine.
    Del resto, se è vero che le B.R. non seppero e non vollero gestire il processo a Moro nell’unico modo in cui avrebbe potuto avere effetti e ricadute dirompenti, non capirono neppure che anche il solo fatto del rilascio di Moro avrebbe assai probabilmente anticipato la percezione del fallimento del vagheggiato avvio all’insurrezione armata del proletariato, ma avrebbe costituito per sé stesso una mina vagante nel complicato e fragile sistema di equivoci e di equilibri cui già era ridotto il regime, indebolendolo d anticipandone la fine.
    Non capirono neanche questo.
    Forse lo capirono alcuni elementi dei Servizi stranieri che ebbero qualche possibilità di influire sulla vicenda ed il suo esito. Può darsi che qualche tendenza a risparmiare la vita di Moro, di cui pure si ha notizia, si ricollegasse effettivamente a meno rozze menti operanti in tali servizi, che dell’”operazione” incominciata il 16 marzo avrebbero voluto fosse prodotto il massimo effetto destabilizzante possibile. Qualche legame tra i brigatisti forse più disponibili a lasciare in vita Moro ed il K.G.B. non è soltanto ipotizzabile.
    La Prima Repubblica, dunque in quelle contingenze che segnarono il momento del suo più grave pericolo, dovette la sua salvezza, più ancora che al cinismo con il quale abbandonò alla sua sorte il suo più tipico e valido “sofista di Stato”, alla incapacità dei terroristi di comprendere e sfruttare le sue debolezze, sfruttando, di conseguenza l’iniziale clamoroso successo della loro operazione.
    La loro ottusità fu la salvezza del regime.

 di Mauro Mellini
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