Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

martedì 16 ottobre 2012

ALESSIO CASIMIRRI E IL CASO MORO

In Italia le cose non sono mai come sembrano.

Ad esempio, il brigatista Alessio Casimirri, condannato in contumacia dalla magistratura italiana nel 1989 per aver preso parte al sequestro e all'omicidio di Aldo Moro, noto come un irriducibile super-protetto, per eccellenza primula rossa delle Brigate Rosse, stava per fare rivelazioni importanti sui cinquantacinque giorni che cambiarono il corso dell’Italia.

Diverse fonti qualificate ci confermano che nel dicembre del 1993, alcuni agenti del Sisde con i quali aveva avviato un dialogo, sarebbero dovuti tornare in Nicaragua, dove tutt’oggi risiede, per raccogliere alcune importanti rivelazioni, “molto più importanti della questione di via Montalcini”, mandò a dire.

Componente del gruppo di fuoco del commando che rapì il presidente della Dc, Casimirri riesce subito a farla franca: scappa in Francia, viene arrestato ma può comodamente fuggire grazie ad un passaporto falso che gli dà l’identità di Guido Di Giambattista. Difficile non pensare che fosse protetto o vicino agli ambienti dell’intelligence. Si è sempre parlato, inoltre, delle coperture che gli sarebbero state garantite da ambienti vaticani e che avrebbero assicurato la sua intangibilità: non è un mistero, dunque, la sua sorte.

L’Italia ha inutilmente chiesto la sua estradizione alle autorità del Nicaragua, il piccolo paese sudamericano dove vive e lavora dagli inizi degli anni ‘80, dove si è spostato, ha figli e due ristoranti, e del quale è un regolare cittadino. Nel 2004 la corte Suprema di Giustizia del Nicaragua ha respinto la richiesta.

Classe 1957, nome di battaglia Camillo, l’ex brigatista Alessio Casimirri rimane l'unico latitante del gruppo delle Br che partecipò all'agguato di Via Fani e che rapì Aldo Moro. In questi anni abbiamo saputo ben poco di lui ma sono arrivati i suoi messaggi: avvertimenti più o meno velati che hanno contribuito a creare la sua immagine di assoluto intoccabile, custode protetto di molti segreti inconfessabili. Presentò anche una denuncia al ministro dell'Interno del suo nuovo paese e al direttore dell'ufficio per l'immigrazione nella quale spiegava di temere "azioni criminali" nei suoi confronti: “Non dimentico - aveva detto al quotidiano El Nuevo Diario - quello che ho passato negli ultimi undici anni: molti tentativi da parte della autorità italiane e diplomatici di questo paese, alcuni dei quali corrotti, di mettere in atto azioni contro la legge. Come il tentativo di sequestrarmi, narcotizzarmi mettermi in una cesta e portarmi con un pulmino alla frontiera. Ho i nomi di coloro che organizzarono questo nel 1996”. Cosa altro, se non un avvertimento?

Casimirri i suoi segreti li ha tenuti ben stretti ma il punto è che intorno al 1993 stava per cedere. Qualche lettore ricorderà che in quel periodo una missione di tre uomini del Sisde riuscì a stabilire dei contatti con lui: i tre agenti partirono alla volta di Managua ed ebbero lunghe conversazioni con uno degli uomini più ricercati d’Italia. L’operazione resta tutt’oggi avvolta dall’ombra: non si può parlare di fallimento quando di inabissamento di quel viaggio.

All’epoca, il contatto con il compagno Camillo fu relativamente facile: esperto sommozzatore, svolgeva in Nicaragua attività di pesca e ricerche subacquee. Pare che non avesse chiesto alcun aiuto economico, se non facilitazioni all’ingresso in altri paesi per poter far girare bene i suoi affari poco floridi.

L’aspetto inedito di quegli incontri è che Casimirri ammise di fronte ai suoi interlocutori di aver preso atto che qualcuno delle Br aveva ’tradito’, alludendo alla poca trasparenza dell’organizzazione brigatista e alle interferenze esterne che avevano accompagnato quella esperienza. Disse che la conferma dei suoi dubbi fu la scoperta che i vertici brigatisti avevano scelto di non dare pubblicità agli scritti di Moro, una parte dei quali fu ritrovata in un pannello del covo di via Montenevoso a Milano (ottobre 1990).

Ma i primi sospetti, secondo le nostre fonti, Casimirri li ebbe subito dopo l’assassinio di Moro. Allora fu mandato in Sardegna ad organizzare le attività nell’isola e lì, grazie al contributo degli attivisti locali, aveva messo a punto il progetto di assalto all’Asinara. Dovevano entrare in azione nell’agosto del 1979, era tutto pronto. Dopo i cinquantacinque giorni, sarebbe stata un’azione importante delle Br, un ritorno in grande stile. Casimirri era molto deciso ma arrivò l’ispezione da Roma: il capo, Mario Moretti, valutò la situazione e stabilì che non se ne faceva niente. Disse che non c’era il volume di fuoco sufficiente. Casimirri, incredulo e deluso, obbedì, spedito a continuare la sua attività illegale a Napoli, dove si portò dietro i dubbi sulla inattesa decisione e sull’uomo che l’aveva presa.

Sebbene Casimirri non sa cosa sia accaduto nelle prigioni in cui era stato tenuto il leader Dc – è stato estromesso dall’operazione subito dopo l’agguato di via Fani perché aveva subito una perquisizione - all’epoca del suo incontro con gli uomini del Sisde, uscirono sulla stampa molte indiscrezioni in base alle quali era stato proprio lui, Casimirri, ad indicare in quella circostanza il vero nome dell’ingegner Altobelli, noto nella letteratura del caso Moro come il quarto carceriere. Si disse che lo aveva identificato in Germano Maccari, sul cui ruolo, nonostante una tardiva confessione, c’è sempre stata una montagna di dubbi: arrestato nell’ottobre del 1993, una perizia calligrafica sulla firma apposta in un contratto di fornitura elettrica fu realizzata solo nel giugno del 1996. Maccari alla fine fece delle ammissioni e chiuse una vicenda avvolta da scurissime nubi.

In realtà, Casimirri non conosceva l’identità di quell’uomo: poteva solo descrivere, come effettivamente fece, l’uomo che gli fu presentato come il compagno che si sarebbe dovuto occupare degli aspetti logistici di una importante operazione – lo riconobbe nella foto di Giovanni Morbioli. Quella persona, raccontò Casimirri, doveva partire per il servizio di leva, circostanza che si sarebbe dovuta assolutamente impedire: perciò Prospero Gallinari, dopo averglielo presentato, chiese a Casimirri di interessarsi affinchè alcune sue conoscenze presso il ministero della Difesa potessero aiutarlo ad ottenere l’esonero dagli obblighi di leva - ma nulla si sa circa la conclusione di questa tentata ‘raccomandazione’.

Nella relazione ufficiale scritta dai tre agenti al ritorno del loro viaggio sulla base delle confidenze di Casimirri si legge questo: “il misterioso individuo [Altobelli] era il braccio destro di Morucci allorquando era in piedi l’organizzazione sovversiva clandestina denominata Formazioni Comuniste Armate (F.C.A.) che ebbe il suo massimo punto nell’attentato a Theodoli in via Giulia a Roma, nel 1976. All’epoca Altobelli aveva il nome di battaglia di Germano, alto circa 1,80 mt, forse più, corporatura snella, con baffetti radi (…) era particolarmente stimato per le sue ‘qualità militari’ [secondo tutti i testimoni non possedute da Germano Maccari, il quale difficilmente avrebbe scelto come nome di battaglia quello che aveva nella realtà]: Savasta [Antonio, brigatista poi pentito] in particolare ne subiva il fascino (…). Altobelli ad un certo punto va a vivere nell’appartamento di via Montalcini insieme alla Braghetti”: ma i due si innamorarono e questo fece nascere delle tensioni con Gallinari, compagno della donna, e questa sarebbe stata una delle cause che portarono alla decisione comune di far lasciare la casa ad Altobelli. “Dagli accertamenti esperiti – prosegue la relazione – l’Altobelli dovrebbe identificarsi in Giovanni Morbioli, romano….”, circostanza che trovò una conferma, come abbiamo detto, da parte di Casimirri ma che non fu mai indagata. Ancora nel 1995, il procuratore Franco Ionta ammise di non sapere se “il nome di Morbioli viene fatto da Casimirri o se vi è per così dire una sollecitazione fatta dai funzionari del Sisde ad indicare in Morbioli in quarto uomo. Questo per dire che l’attività svolta dal Sisde sul quarto uomo non avrebbe in realtà portato all’indicazione su Maccari ma su persona diversa”. Dunque quella pista non venne esplorata: c’era già in nome di Maccari in ballo, forse non si volevano interferenze?

Le circostanze rivelate da Casimirri circa il ruolo e la presunta identità dell’ingegner Altobelli, uomo legato a Morucci, devono poi essere legate ad un altro episodio riferito dall’ex brigatista rifugiato in Nicaragua: un giorno Valerio Morucci gli fece visita nel negozio che Casimirri gestiva a Roma, nei pressi della zona di Monteverde. All’interno di quel locale c’era un pannello scorrevole che nascondeva la parte retrostante. In quell’occasione Morucci disse che l’idea era molto interessante e, in effetti, bisogna ricordare che nel primo processo Moro, anche sulla base delle testimonianze dei pentiti Patrizio Peci e Antonio Savasta, si parlò molto della possibilità che Moro potesse essere stato nascosto per un tempo non definibile nel retrobottega di un negozio. Peci dice che si trattava di un negozio di caccia e pesca, Savasta specifica che si trovava nella zona di Piazza S. Giovanni di Dio – vicino Monteverde, appunto. Morucci, secondo questa ricostruzione, potrebbe aver chiesto ad Altobelli di realizzare quell’idea nel covo-prigione. Ma ciò che interessa di più è che Casimirri, come abbiamo visto, descrisse l’uomo, fornendo alcuni particolari che indussero successivamente gli investigatori a identificare la persona in Giovanni Morbioli, un terrorista che nessuno si prese però la briga di andare ad interrogare. Casimirri, vista la foto di Morbioli che gli fu inviata, mandò a dire agli uomini del Sisde che al 100% si trattava del quarto uomo: Casimirri scrisse la sua opinione su un foglietto che fu poi mostrato durante il processo Moro quinques.

Oltre al capitolo “Altobelli”, l’operazione Nicaragua portò ad individuare in Algeria, e dunque già dall’agosto del 1993, i latitanti Rita Algranati e Maurizio Falessi, ma non si hanno notizie di uno sviluppo delle indagini: i due, in effetti, furono arrestati in Egitto solo molto tempo dopo, nel gennaio del 2004, dopo un’operazione condotta dal Sisde guidato da Mario Mori.

Detto tutto questo, il punto più scottante riguarda l’evoluzione che la collaborazione avviata sembrava destinata ad avere. Casimirri, secondo le nostre fonti, era disponibile a raccontare particolari molto importanti del caso Moro, tanto che era stato già fissato un nuovo incontro in Nicaragua per il dicembre successivo: solo che l’appuntamento saltò, l’operazione Nicaragua fu bruciata.

Casimirri non prese molto bene uno scoop del quotidiano L’Unità del 16 ottobre 1993 che, all’indomani dell’arresto di Germano Maccari, lo accreditava come una delle possibili fonti del Sisde nell’operazione sul “quarto uomo”. Quattro giorni dopo, il 20 ottobre 1993, un servizio del telegiornale serale del secondo canale della Rai riferì che il latitante aveva fatto sapere ad un giornalista collaboratore della testata che non era più disposto a rilasciare dichiarazioni per rogatoria ai giudici italiani e che intendeva scomparire dalla circolazione.

Naturalmente, la notizia sulla missione svolta in Nicaragua era stata diffusa da ambienti dei servizi: solo ed esclusivamente lì era noto che gli agenti impiegati nell’operazione erano stati tre, come correttamente si raccontava nell’articolo. Neanche i magistrati che sapevano del viaggio conoscevano quel particolare.

Non sappiamo cosa avrebbe rivelato Casimirri. Tutto fa pensare che la sua uscita di scena abbia garantito la riservatezza di fatti indicibili e per questo si può azzardare un paragone: le interminabili indagini sulla strage di Piazza Fontana registrano, tra depistaggi, omissioni e fughe ‘controllate’ dei suoi protagonisti anche il “licenziamento” di un informatore del Sid di Padova, noto come “la fonte Tritone”. Si è poi saputo che si trattava di Gianni Casalini e che sapeva molte cose importanti sulla strage ma il generale Maletti chiese la rapida “chiusura della fonte”: parlava troppo e dava notizie attendibili. Casalini fu poi ascoltato in anni recenti dal giudice Guido Salvini che raccolse importanti elementi investigativi.

Ecco, Alessio Casimirri, la primula rossa delle Br, potrebbe essere stato il “Casalini del caso Moro”: non si sa chi sia stato il ‘Maletti’ della situazione ma c’è sempre una fonte a cui tappare la bocca.

Stefania Limiti
ottobre 2012

Caso Moro, parla l'artificiere che per primo vide il corpo di Moro

«Eravamo in guerra». Così racconta gli anni di piombo Vitantonio Raso, autore del libro «La bomba Umana», in cui ripercorre la tragica scoperta del corpo dell'onorevole Aldo Moro, stipato nel bagagliaio della Renault 4 color amaranto. «Oggi paragonerei i 55 giorni del rapimento Moro al crollo delle Torri Gemelle dell'11 settembre: un attacco al cuore dello stato». Lo Stato e l'antistato, le Brigate rosse, il terrorismo di destra e di sinistra, il contrasto tra la legalità e la sovversione, il panico. Il vissuto personale di Vitantonio, originario di Serre (Salerno), si intreccia con la storia sociale collettiva, fino a diventarne involontariamente protagonista indiscusso. Oggi ha 58 anni, è cavaliere al merito della Repubblica Italiana e funzionario in pensione della presidenza del Consiglio dei Ministri. All'epoca non aveva ancora 24 anni, ed era già specializzato come artificiere-antisabotatore. «Quella mattina fui uno dei primi ad arrivare in via Fani. All'epoca non si poteva dare inizio alle operazioni prima dell'arrivo dell'artificiere antisabotatore. C'erano brutti segnali. C'era stato il furto di grosse quantità di esplosivo. C'erano tutti i presupposti per un attentato».

Cosa provò?
«La sensazione fu orribile. Conoscevo quasi tutta la scorta: erano ragazzi della mia età. Sangue e bossoli dappertutto. Centinaia di colpi sparati. Il sangue ancora scorreva. Uno scenario inquietante. Ho cercato di trovare una ragione e un senso a quegli anni, ma non riesco a dimenticare. Fu disposto dal procuratore della Repubblica di Roma, Achille Gallucci, che fossi solo e soltanto io a seguire il caso, non perché fossi più bravo, ma per un fatto tecnico, perché in via Fani avevo lasciato le mie impronte. La tensione era alta, non bisognava sottovalutare nulla».

Che atmosfera si respirava?
«In quei 55 giorni Roma era una bomba a ciel sereno, tutte le strade erano bloccate, non si muoveva nulla, neanche la criminalità organizzata. Per la prima volta fu usato l'esercito come appoggio alle forze di polizia. Telefonate anonime, valigie sospette, anche per depistare: ho dormito pochissimo, sempre in allerta».

Parliamo del giorno del ritrovamento della Renault 4 col corpo di Moro.
«Erano le 11 di mattina. La volante 23 della polizia venne a prendermi in ufficio. Proseguimmo a velocità sostenuta. Furono molto vaghi: mi dissero che stavamo andando al centro di Roma, che c'era questa macchina e null'altro. Nessuno mi parlò di Moro. Arrivai alle 11.30. Fui lasciato solo. Una solitudine estrema. Era il mio compito: ero un servitore dello stato, che stava sacrificando se stesso. La Renault era completamente chiusa, anche il bagagliaio. La mia attenzione fu catturata da quella coperta di tipo militare. Sopra era appoggiato un portaoggetti di colore nero: dentro c'era una catenina d'oro, un orologio e un assegno del Banco di Santo Spirito intestato ad Aldo Moro. Lì capii. Il mio pensiero fu: oggi mi fanno la pelle, salto io e tutta la macchina. Il significato era chiaro, era stato colpito l'uomo dello stato al cuore dello Stato. Provai uno sdegno totale. Mi sono sentito come un servitore dello stato che muore. Noi credevamo in quei valori, lavoravamo 24 ore su 24. Quella di via Caetani era una disfatta».

Come ha vissuto dopo quell'evento?
«Passati quei giorni, non ho avuto più stimoli e nessuno mi ha cercato. È inevitabile portarsi dentro una simile vicenda. Nel ‘86 fui posto in congedo: accaddero strane cose e molti amici furono ammazzati».

Le sono rimasti dei dubbi?
«Ancora oggi mi aspetto delle risposte. È un caso ancora aperto e da discutere, con tasselli mancanti. Perché tutto questo arco di tempo tra la telefonata mattutina e il nostro intervento alle 11.30? Perché il diniego a raccontarmi il contenuto di questa telefonata? Perché non sono mai stati chiamato a testimoniare?».

Perché ha scelto il titolo «La bomba umana?»
«Io non sapevo nulla. La bomba simboleggia il silenzio di quella mattina: tutti sapevano, tranne me. Questa bomba umana potrebbe essere ancora dentro di me, esplosa o inesplosa. Ancora oggi è presente e potrebbe esplodere. Lo stato ha la responsabilità enorme di non averlo salvato, attraverso la linea della fermezza e decidendo per la non-trattativa. Ho avvertito che eravamo tutti pilotati, noi servitori dello Stato e anche i terroristi. C'erano tante classi politiche che non volevano il compromesso storico».

Barbara Landi
http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2012/15-ottobre-2012/caso-moro-parla-artificiere-che-primo-vide-corpo-moro-2112257615662.shtml