Nell'oceano di Internet sono centinaia i siti che si occupano dell'affaire Moro, come è stato definito da Sciascia. Il mio blog si presenta come un progetto diverso e più ambizioso: contribuire a ricordare la figura di Aldo Moro in tutti i suoi aspetti, così come avrebbe desiderato fare il mio amico Franco Tritto (a cui il sito è certamente dedicato). Moro è stato un grande statista nella vita politica di questo paese, un grande professore universitario amatissimo dai suoi studenti, un grande uomo nella vita quotidiana e familiare. Di tutti questi aspetti cercheremo di dare conto. Senza naturalmente dimenticare la sua tragica fine che ha rappresentato uno spartiacque nella nostra storia segnando un'epoca e facendo "le fondamenta della vita tremare sotto i nostri piedi".
Ecco perchè quel trauma ci perseguita e ci perseguiterà per tutti i nostri giorni.

martedì 8 ottobre 2013

La trattativa segreta di Moro con Nasser per gli italiani in Libia

Libia, 7 ottobre 1970. Quarantatrè anni fa. Gli italiani vengono cacciati da Gheddafi. Quarantamila persone sono espulse dalla mattina alla sera, dichiarate «indesiderate» dal nuovo governo rivoluzionario che ha preso il potere un anno prima. I loro beni, confiscati. Uno choc per tanta brava gente che nulla aveva a che fare con le vicende coloniali e che si considerava tripolina a tutti gli effetti.

Nella rabbia del momento, tanti accusarono il governo dell’epoca, e soprattutto il ministro degli Esteri Aldo Moro, di non avere capito gli eventi e di non essere intervenuto. Ma non è così. Dagli archivi emergono documenti che raccontano di una trattativa segreta condotta da Moro attraverso un mediatore d’eccezione, il raiss egiziano Gamal Nasser.

Quanto il ministro fosse in ansia ce lo racconta un certo ambasciatore Aldo Marotta, consigliere diplomatico dell’allora vicepresidente del Consiglio, Francesco De Martino. «Moro - si legge in una sua relazione del 27 maggio 1970, oggi consultabile sul sito storico del Senato, sezione archivi online - ha espresso le sue preoccupazioni per le difficoltà dei rapporti italo-libici particolarmente per quanto riguarda la nostra comunità in Libia. Nasser ha risposto che occorre avere pazienza perché la nuova dirigenza libica è giovane e inesperta, e oltre che Ghe Dafi (scritto così dal dattilografo di palazzo Chigi, malamente, in due parole: Gheddafi in Italia era un oggetto misterioso, ndr) solo pochi altri contano. Egli parlerà a Ghe Dafi nel prossimo vertice di Kartoum».

L’incontro tra Moro e Nasser si tiene al Cairo. In agenda: i rapporti arabo-israeliani e la situazione palestinese. Moro, con le sue tipiche cautele lessicali, fa capire all’interlocutore che finché l’Egitto si appoggerà all’Urss, la crisi dell’area non avrà soluzione in quanto parte della Guerra Fredda. Insiste perché l’Egitto si allontani da Mosca e apra trattative dirette con Tel Aviv.

Si propone come mediatore. «Il governo di Roma è a completa disposizione come ha già dimostrato in passato (proponendo il famoso “calendario operativo” nell’ambito dell’Onu, iniziativa Fanfani) e ritiene che si tratti ormai di dover iniziare qualche gesto concreto (come il riconoscimento di Israele) per mettere in moto un meccanismo, anche societario, che spinga Mosca, gli Stati Uniti, Israele e il Cairo a ravvicinare le loro posizioni».

E’ in questo quadro di reciproche disponibilità, che Nasser diventa il mediatore degli interessi italiani verso la Libia. «Nasser ha insistito - riferisce ancora Marotta - presso il ministro dell’Industria libico perché riceva a Tripoli, prossimamente, una nota personalità italiana. Ha ricevuto risposta affermativa. Pensa che l’incontro dovrebbe avvenire al più presto ed iniziare una nuova presa di contatti italo-libici che favorirebbero la situazione. Moro ringrazia e si dichiara d’accordo».

Fin qui, il 27 maggio, i primi passi di una trattativa che ben presto si rivela illusoria. Marotta aggiunge a margine che «ancora non è stato scelto il politico che dovrebbe andare in Libia perché si attende, per via diplomatica, conferma da Tripoli». La conferma non verrà mai. Anzi. A luglio il regime colpirà i beni degli italiani, ordinando la confisca di immobili e terreni. Ad agosto si minacciò di far chiudere tutti i negozi degli italiani. Forse era inevitabile che finisse così: Gheddafi aveva preso il potere per rivoluzionare la Libia, cacciare le truppe inglesi e americane, e cavalcare l’identità nazionale: l’Italia occupante e gli italiani colonialisti non potevano che diventare il suo principale bersaglio.

Secondo lo storico Arturo Varvelli, poi, che ha scritto un acuto saggio («L’Italia e l’ascesa di Gheddafi», Baldini Castoldi Dalai editore) basandosi su documenti della Farnesina, Moro in realtà sbagliò a fidarsi di Nasser. Gli egiziani avevano interesse a sostituirsi agli italiani in Libia, non a tenerli lì. Nasser avrebbe condotto quindi un doppio gioco, facendo credere al governo di Roma di curare i nostri interessi, invece organizzandosi per inviare a Tripoli migliaia di tecnici egiziani disoccupati al posto dei nostri ingegneri architetti e agronomi sul punto di essere espulsi. Probabile. E’ un fatto, però, che finché Nasser fu in vita, la crisi italo-libica non precipitò. L’estate del 1970 passò tra alti e bassi, roboanti dichiarazioni pubbliche e accomodanti segnali privati.
Drammaticamente, poi, il 1° ottobre, Nasser morì per un infarto, lasciando sconvolto l’Egitto e a lutto l’intero Medio Oriente. Sei giorni dopo, sentendosi le mani libere, Gheddafi cacciava gli italiani. 

Francesco GRIGNETTI
La Stampa, 8 ottobre 2013

sabato 5 ottobre 2013

Caso Moro, l'ombra degli Stati Uniti

di Massimo Del Pepe
lettera 43

Fantasmi che ritornano, senza mai essere andati via. Per niente candidi fantasmi che aleggiano da 35 anni, dalla prigionia di Aldo Moro destinato a morte forse all'ultimo momento, forse fin da prima di essere rapito in via Fani.
LA VERSIONE DI PIECZENIK. La procura di Roma ha incaricato la Digos di acquisire la cassetta dell'intervista, trasmessa il 30 settembre da Radio24, a Steve Pieczenik, esperto di terrorismo, consulente del dipartimento di Stato Usa nel 1978, che avrebbe condizionato le autorità italiane nella fase finale della gestione di Moro, culminata nella tragedia dell'esecuzione, «al fine di stabilizzare la situazione dell'Italia».
PALAMARA PUNTA I PIEDI. Il pm procedente Luca Palamara vuole convocare, via rogatoria, proprio Pieczenik, anche sulla scia di un esposto, depositato lo scorso giugno, dall'ex giudice istruttore Ferdinando Imposimato che, una volta in pensione, ha fatto luce su alcune circostanze del caso.
LA TEORIA DEL «DOPPIO OSTAGGIO». Imposimato è da sempre convinto che l'ex presidente della Democrazia cristiana potesse essere salvato. Ma il blitz programmato per liberarlo dal covo di via Montalcini sarebbe saltato all'ultimo momento, per un cambio di decisione presa dai vertici del partito. È questa la tesi del «doppio ostaggio» (Moro contro carte compromettenti per la Dc e per lo Stato), sostenuta anche dal maggiore storico del caso, l'ex senatore comunista e scrittore Sergio Flamigni.
Nel 2006, il consulente del Viminale Steve Pieczenik, uomo della Cia, rivendicò clamorosamente il pieno merito dell'esecuzione di Moro, avvenuta per mano di brigatisti sapientemente manipolati, nel libro Abbiamo ucciso Aldo Moro, di Emmanuel Amara, pubblicato in Italia circa due anni dopo. Assunti confermati lunedì 30 settembre e subito acquisiti dalla procura romana.

Il naufragio dei canali di trattativa

 Il cadavere di Aldo Moro trovato in una Ranault 4 parcheggiata in via Caetani a Roma il 9 maggio 1978.
Lo stratega americano Steve Pieczenik, arruolato dall'allora ministro dell'Interno Francesco Cossiga nei giorni del sequestro del presidente Dc (mossa che molti all'epoca non capirono), annotò: «Perché ucciderlo [Moro]? Avrebbero dovuto dire: se lo liberiamo il mondo ce ne sarà riconoscente, la sua famiglia anche, la Democrazia cristiana ci lascerà in pace e concluderà un accordo con noi, i comunisti ci riconosceranno e gli elementi reazionari verranno neutralizzati».
Ma l'America voleva davvero tutto questo? Di certo non lo gradiva l'intransigente Mario Moretti, capo supremo delle Br in questa fase, il quale, anche contro il gruppo dirigente brigatista, s'incaricò personalmente dell'esecuzione.
IL GIALLO DEI MEMORIALI. Ulteriori ombre emersero, postume, dalle due versioni dei memoriali dello stesso Moro recuperati a distanza di 12 anni, mai in originale e nella loro completezza, nel covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano, la prima il primo ottobre del 1978, la seconda 12 anni più tardi.
Moro, in due diverse lettere, passava dal sollievo per l'imminente liberazione, della quale «desidera dare atto alle Br», allo sconforto definitivo per una svolta inopinata e definitiva, maturata in extremis, che lo condannava.
Ma Moro si poteva salvare? Di certo trattative si aprirono, e per più canali: quello riservato dei singoli uomini delle istituzioni, l'altro, esplicito, di alcuni partiti (il Psi di Craxi). Un terzo, sotterraneo, col Vaticano.
LA PROFEZIA DEL 1968. Ma l'epilogo fu quello che per Moro, in situazioni diverse e a volte paradossali, venne profetizzato fin dal 1968, e che trovò una macabra conferma nel 1974, quando lo statista democristiano, in visita ufficiale negli Stati Uniti, venne esplicitamente avvertito dal segretario di Stato Henry Kissinger delle possibili conseguenze della politica morotea di equilibrio in Medio Oriente, giudicata troppo filopalestinese, nonché sull'apertura manifestata da Moro verso le forze di sinistra.
Il presidente Dc ne restò così turbato da anticipare il rientro in Italia, dandosi malato per alcune settimane.

L'ex Ss Hass, padre Morlion e lo zampino della Cia

A proposito di interferenze americane, però, quella di Pieckzenik non è l'unica presenza inquietante. L'ex gerarca Ss Carl Hass, responsabile dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, nell'immediato Dopoguerra si trovava a Fermo nei panni di un insegnante di inglese e matematica del Collegio del Sacro Cuore: qui fu agganciato da emissari di padre Felix Morlion, uomo della Cia in Europa, legato ai democristiani De Gasperi, Scelba e Andreotti. Quest'ultimo era addirittura segretario particolare del religioso appartenente ai Servizi americani.
Hass ammise, nell'interrogatorio reso il 4 luglio 1996 al capitano Massimo Giraudo e al maresciallo Cosimo Pano del Ros, il suo ruolo in una rete di agenti sotto la responsabilità di padre Morlion, con compiti di spionaggio raccolti negli ambienti della destra italiana.
GLI ARCHIVI URUGUAYANI DI GELLI. Quanto a Morlion, era entrato in Italia nel 1944 tramite l'Oss americana, per la quale già nel 1932 aveva fondato i Cip, centri informazione Pro Deo.
Il primo a parlare dell'ambiguo prelato-spione fu il solito Mino Pecorelli, che nel 1968 descrisse la ProDeo come una copertura del Servizio di sicurezza del ministero dell'Interno. Indiscrezioni che trovarono conferme anni dopo, quando dagli archivi uruguayani di Licio Gelli, il Venerabile della P2, spuntò un fascicolo intestato a Morlion.
VIA CAETANI: I DUBBI SULL'ORARIO. Il pm Palamara scava pure nell'orario del ritrovamento del cadavere di Moro nella Renault 4 la mattina del 9 maggio 1978 in via Caetani.
Secondo diverse testimonianze, tra cui quelle di due artificieri antisabotaggio, esponenti dello Stato erano sul posto già alle 11, consapevoli del macabro contenuto della R4, mentre la telefonata delle Br che annunciava la presenza del cadavere arrivò solo dopo le 12 e 30.
Lo stesso Cossiga, secondo indiscrezioni di pochi mesi fa, fu informato dell'esecuzione di Moro praticamente in tempo reale.
Ma questa è un'altra storia, anzi un altro mistero.

venerdì 4 ottobre 2013

Gotor: «La verità su Moro? È negli archivi della Stasi»

«L’apertura degli archivi della Germania dell’Est e della Stasi sono una svolta importante». Lo dice lo storico Miguel Gotor, senatore del Pd, spiegando il ddl presentato ieri per l’istituzione di una commissione d’inchiesta sul terrorismo e sull’uccisione di Aldo Moro.

Dal punto di vista istituzionale la proposta dei senatori segue quella presentata alla Camera dai capigruppo di maggioranza che, però, è monocamerale. È «bene», invece, sostiene Gotor, «che entrambi i rami del Parlamento partecipino a questo lavoro che ha lo scopo di stabilire una verità storica credibile». Miguel Gotor fa di mestiere lo storico e, negli ultimi anni, ha dedicato due importanti libri alla figura di Aldo Moro, così come esce dalla lettere che lo statista inviò dal «carcere del popolo» istituito dalle Brigate rosse.

Senatore, l’uccisione di Aldo Moro rappresenta certamente un tragico turning point nella vicenda italiana. Ma cosa e come si può arrivare a stabilire oggi?
«Approfittare della nuova legislazione sul segreto che è stata emanato nel 2007, in secondo luogo, attraverso lo strumento delle rogatorie internazionali, approfondire il tema delle ingerenze straniere, non solo sulla vicenda di Aldo Moro ma sull’insieme del fenomeno terroristico, sia nella sua variante di lotta armata che nella sua variante di stragismo dal 1969 al 1985. Sul piano internazionale sono emerse delle novità, in particolare disponibilità archivistiche nuove. Si sono aperti gli archivi della Germania Est, gli archivi della Stasi, e quelli della Repubblica Ceca. E poi anche la questione che i sommovimenti degli ultimi anni nell’area mediorientale, che potrebbero favorire l’approfondimento del cosiddetto “Lodo Moro”, ovvero dei rapporti informali fra una parte della diplomazia italiana e i palestinesi».

Cos’è il «Lodo Moro»?
«In sei lettere di Aldo Moro ci sono degli accenni, necessariamente fra le righe ma abbastanza espliciti, a scambi di prigionieri fatti in base questi accordi informali stipulati nel 1973 con il Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp) che garantiva da un lato un approvvigionamento energetico di favore e, dall’altro, il passaggio delle armi provenienti dalla Germania attraverso il territorio italiano, che dovevano arrivare in Palestina, in cambio del tenere fuori l’Italia da attentati terroristici di quella matrice mediorientale. Nel 1973 c’era stato il terribile attentato all’aeroporto di Fiumicino. È molto importante approfondire il nesso nazionale-internazionale».

I 55 giorni del rapimento sono costellati da macroscopici errori e omissioni dei responsabili delle indagini...
«Resta importante, sempre in questo nesso fra ciò che avveniva in Italia e le vicende internazionali, conoscere le negligenze, le omissioni che ci sono state negli apparati nazionali».

 Quali obiettivi si deve porre la commissione?
«Un duplice obiettivo, a mio parere, che sostengo da senatore e da storico. Da un lato penso che sia un obbligo morale e civile fare il possibile per raggiungere una verità storica credibile, lo dobbiamo all’opinione pubblica, alla famiglia, alla Repubblica. C’è, poi, una seconda utilità civica: diradare le nebbie della dietrologia e provare a restituire credibilità alle istituzioni».

In 35 anni c’è stato uno stillicidio di rivelazioni, fra le ultime quella dell’artificiere che ispezionò la Renault 4. Ma, a molti anni di distanza, non risulta più difficile stabilire i fatti?
«Il fatto che siano passati tanti anni per quanto riguarda la possibilità di conoscere determinate dinamiche, la distanza temporale aiuta. Anche l’essere usciti da una logica di guerra fredda aiuta, c’è una serie di ragioni anche ideologiche che aiuta ad avere una maggiore libertà. La prima commissione parlamentare sul delitto di Aldo è del 1979. Oggi viviamo in un altro mondo, sono cambiati i presupposti ideologici e materiali, tutto questo dà una maggiore libertà».

Il macigno storico dell’uccisione di Moro pesa ancora sulla coscienza civile del Paese?
«La rimozione di questo macigno, che alcuni auspicano, è il modo migliore perché rotoli ancora. Invece lavorarci su, penso che sia utile. Ed è giusto che anche il Senato sia coinvolto».

Nel suo primo libro su Moro c’era una certa diffidenza per le testimonianze Br.
«Le testimonianze dei protagonisti vanno sempre guardate con cautela critica, tutte, non solo quelle dei brigatisti. Un conto è parlare da imputato, un altro quando sei fuori dal carcere. Un conto è quel che dice un politico in carica, un altro quando non si hanno più responsabilità».

Gli archivi della Ddr e cecoslovacchi possono rivelare qualcosa su Moro o sono da riferirsi all’insieme di quegli anni?
«È la storia della lotta armata degli anni settanta desecretata da Germania e Repubblica Ceca. C’è poi il nodo di Hiperion, la rete spionistica che aveva sede a Parigi. Si potrebbe finalmente ascoltare Steve Pieczenik, inviato dal Dipartimento di Stato Usa durante il sequestro Moro. Si tratta di uscire dalla logica dei blocchi, per capire cosa succedeva quando l’Italia era una zona calda della guerra fredda».

Jolanda Bufalini
L'Unità, 25 settembre 2013

martedì 25 giugno 2013

Finanziere sardo: una telefonata fermò il blitz per liberare Moro



Le sentenze non scrivono la storia e tantomeno le storie possono chiudersi con una sentenza. Perché ci sono verità che restano nascoste in fondo a bui abissi, protette dalla paura di chi sa e dal cinismo di poteri che non vogliono farle emergere. Così è per il sequestro e la morte del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, avvenuta il 9 maggio del 1978. Vicenda scritta dalla ferocia delle Brigate Rosse, ma forse anche da oscuri burattinai che sono rimasti finora nell'ombra. Dunque, una storia che ancora nasconde nelle sue pieghe torbide presenze e regie occulte che inchieste e processi non sono riusciti a svelare. Ma il tempo corrompe le complicità, modifica gli scenari e affranca le coscienze. Così, dopo 35 anni, è possibile che la storia della morte di Moro possa essere riscritta, liberata dalle catene del silenzio e dei depistaggi.
Nei giorni scorsi la procura della Repubblica di Roma ha infatti riaperto il caso, in seguito alla presentazione di una denuncia che propone una sconvolgente ipotesi: la prigione di Moro, in via Montalcini 8, a Roma, era stata individuata dai servizi segreti e da Gladio e controllata per settimane. Non solo: l'8 maggio del 1978 lo statista Dc che sognava di cambiare la politica italiana doveva essere liberato con un blitz delle teste di cuoio dei carabinieri e della polizia, ma una telefonata dal Viminale bloccò tutto.
La Renault rossa. E il giorno dopo Moro fu ucciso. Il suo cadavere fu fatto ritrovare nel portabagagli di una Renault rossa in via Caetani. In quel momento la storia italiana deragliò da un percorso progettato da Moro e dal suo amico-nemico Berlinguer, tornando nello schema ortodosso della politica dei blocchi e incamminandosi poi verso un tragico declino morale. Per la procura romana impossibile sottovalutare quell'esposto. Perché a redigerlo e depositarlo è stato Ferdinando Imposimato, oggi avvocato, ma soprattutto presidente onorario aggiunto della suprema corte di Cassazione e in passato magistrato che ha seguito alcune tra le più complesse e importanti inchieste della storia del Paese. Come quelle sul sequestro-omicidio di Aldo Moro.
A fornire a Imposimato la chiave che ha consentito di aprire questa nuova porta sul caso Moro è stato un sardo, Giovanni Ladu che ha oggi 54 anni. Un brigadiere della guardia di finanza in servizio a Novara che, nel 1978, era militare di leva nel corpo dei bersaglieri e fu testimone della decisione che condannò a morte Moro. Imposimato conobbe Ladu nell'ottobre del 2008. Si presentò nel suo studio all'Eur insieme a due colleghi, autorizzato dal suo comandante. Aveva scritto un breve memoriale nel quale sosteneva di essere stato, con altri militari a Roma, in via Montalcini per sorvegliare l'appartamento-prigione in cui era tenuto il presidente della Democrazia cristiana. Un appostamento cominciato il 24 aprile 1978 e conclusosi l'8 maggio, alla vigilia dell'omicidio di Moro.
Perché Ladu aveva atteso ben 30 anni prima di parlare? «Avevo avuto la consegna del silenzio e il vincolo al segreto - disse -, ma soprattutto avevo paura per la mia incolumità e per quella di mia moglie. La decisione di parlare mi costa molto, ma oggi spero che anche altri, tra quelli che parteciparono con me all'operazione trovino il coraggio di parlare per ricostruire la verità sul caso Moro».
Nome in codice: Archimede. Ladu raccontò così che il 20 aprile del 1978 era partito dalla Sardegna per il servizio militare. Destinazione: 231° battaglione bersaglieri Valbella di Avellino. Dopo tre giorni, lui e altri 39 militari di leva, furono fatti salire su un autobus, trasportati a Roma e alloggiati nella caserma dei carabinieri sulla via Aurelia, vicino all'Hotel Ergife. Furono divisi in quattro squadre e istruiti sulla loro missione: sorveglianza e controllo di uno stabile. A tutti i militari fu attribuito uno pseudonimo: Ladu diventò “Archimede”. Lui e la sua squadra presero possesso di un appartamento in via Montalcini che si trovava a poche decine di metri dalla casa dove, dissero gli ufficiali che coordinavano l'operazione, «era tenuto prigioniero un uomo politico che era stato rapito». Il nome di Moro non venne fatto, ma tutti capirono. Il racconto di Ladu era ricco di dettagli: controllo visivo 24 ore su 24, microtelecamere nascoste nei lampioni, controllo della spazzatura nei cassonetti. Per mimetizzarsi indossavano tute dell'Enel o del servizio di nettezza urbana. Così controllarono gli spostamenti di "Baffo" (poi riconosciuto come Mario Moretti) che entrava e usciva sempre con una valigetta o della "Miss" (Barbara Balzerani). Un giorno Ladu fu inviato con un commilitone a verificare l'impianto delle telecamere all'interno della palazzina dove era detenuto Moro. Era vestito da operaio. Invece di premere l'interruttore della luce, il brigadiere sardo suonò il campanello. Aprì la "Miss" e Ladu improvvisò con prontezza di spirito, chiedendo se era possibile avere dell'acqua.
Il piano di evacuazione. Il racconto era agghiacciante nella sua precisione. Nell'appartamento sopra la prigione di Moro, poi, erano stati piazzati dei microfoni che captavano le conversazioni. La cosa che stupì Ladu era che il personale addetto alle intercettazioni parlava inglese. «Scoprimmo in seguito - ricordò - che si trattava di agenti segreti di altre nazioni, anche se erano i nostri 007 a sovrintendere a tutte le operazioni». Altri particolari: era stato predisposto un piano di evacuazione molto discreto per gli abitanti della palazzina ed era stata montana una grande tenda in un canalone vicino, dove era stata approntata un'infermeria nel caso ci fossero stati dei feriti nel blitz delle teste di cuoio.
«L'8 maggio tutto era pronto - disse ancora Ladu - , ma accadde l'impensabile. Quello stesso giorno, alla vigilia dell'irruzione, ci comunicarono che dovevamo preparare i nostri bagagli perché abbandonavamo la missione. Andammo via tutti, compresi i corpi speciali pronti per il blitz e gli agenti segreti. Rimanemmo tutti interdetti perché non capivamo il motivo di questo abbandono. La nostra impressione fu che Moro doveva morire».
Nella caserma dei carabinieri sull'Aurelia Ladu raccontò di aver sentito dire da alcuni militari dei corpi speciali che tutto era stato bloccato da una telefonata arrivata dal ministero dell'Interno. Mentre smobilitavano, un capitano intimò al brigadiere sardo: «Dimenticati di tutto quello che hai fatto in questi ultimi 15 giorni».
“Brillantina Linetti”. Successivamente, seguendo una trasmissione in tv, Ladu riconobbe uno degli ufficiali che coordinavano l'operazione: era il generale Gianadelio Maletti (ex capo del controspionaggio del Sid) che i militari avevano soprannominato, per la sua pettinatura, "Brillantina Linetti".
Imposimato rimase inizialmente molto perplesso e diffidente. Il racconto di Ladu sconvolgeva tutte le esperienze investigative precedenti, ne annullava tutte le certezze e, soprattutto, poneva un problema terribile: bloccando il blitz, qualcuno aveva decretato la morte di Aldo Moro. Per quattro anni, così, quel racconto rimase sospeso, in attesa di conferme e riscontri. Fino a quando non comparve il gladiatore Oscar Puddu. Con lui il quadro di quei giorni drammatici del 1978 sembrò completarsi e trovare una nuova credibilità. Nel mentre, Imposimato aveva conosciuto i gladiatori sardi Arconte e Cancedda e sentito i loro sconvolgenti racconti sul caso Moro. Confermavano che nel mondo dei servizi segreti si sapeva dell’imminente sequestro di Moro.
Giovanni Ladu, poi, non aveva e non ha alcun interesse a risvegliare i fantasmi che popolano uno dei fatti più oscuri della vita della Repubblica. Lui, soldato di leva in quel 1978, venne proiettato in un universo sconosciuto del quale sapeva poco o nulla. La scelta del Sismi di utilizzare questo manipolo di ragazzi era originata dal fatto che, vista l’età, erano meno visibili, meno sospettabili da parte dei terroristi. Ladu, dopo aver parlato con Imposimato, fu poi interrogato il 9 settembre 2010 dal pm romano Pietro Saviotti.
Lo stop a Dalla Chiesa. Resta da capire, a questo punto, chi fece quella telefonata che condannò a morte Aldo Moro. Chi poteva ordinare al generale Musumeci, coordinatore dell’operazione Moro, di fermare tutto? L’unica risposta possibile è: Cossiga e Andreotti. Uno ministro dell’Interno e l’altro presidente del Consiglio. D’altra parte, la fatidica telefonata arrivò dal Viminale. Poi, sempre secondo quanto ha raccontato il gladiatore Oscar Puddu, il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa insisteva per il blitz, ma fu bloccato da Andreotti e da Cossiga. Lo convocarono a Forte Braschi, la sede del Sismi, e lo redarguirono duramente.


di Piero Mannironi
La Nuova Sassari, 23 giugno 2013

lunedì 29 aprile 2013

Aldo Moro riformista tragico

 Il riformismo alla prova. Il primo governo Moro nei documenti e nelle parole dei protagonisti (ottobre 1963-agosto 1964), a cura di Mimmo Franzinelli e Alessandro Giacone, Feltrinelli, Milano, pagg. 676, € 65,00


Chissà se quest'anno, a tempo debito (cioè nell'autunno), ci sarà una qualche celebrazione dei cinquant'anni trascorsi dall'avvio del primo governo di centro-sinistra "organico", quello guidato da Aldo Moro con Nenni suo vice. Sarebbe una storia istruttiva, perché la famosa "apertura a sinistra" fu il tormento della politica italiana dal fallimento della "legge truffa" nel 1953, quando ci si rese conto che per stabilizzare una necessaria politica riformatrice ci voleva una maggioranza solida che non fosse vittima delle continue tensioni interne della "formula centrista", dove il conservatorismo posapiano delle destre dc e liberali si contrapponeva alla vivacità di una cultura riformista che cresceva nel Paese senza trovare una sponda decisiva nella sinistra dc nonché nei repubblicani e socialdemocratici.
Ci sarebbero molti modi di ritornare su una storia che è ancora vittima, anche più di quel che non appaia, di due opposte damnatio memoriae: da un lato quella di un neoliberalismo nostrano che sembra non conoscere il riformismo liberale anglosassone, dal lato opposto quella dei postcomunisti rimasti ancorati all'avversione alla formula del Pci dell'epoca, che era più che altro quella di un partito che si sentiva tagliato fuori. Di questa tradizione intellettuale è rimasto vittima anche colui che fu un regista della svolta democristiana verso l'alleanza coi socialisti, cioè Aldo Moro, il politico che tesseva senza spiegarsi, attento a guidare in porto una nave prigioniera di mille tempeste, da quelle scatenate da alcuni potenti vertici ecclesiastici a quelle di vari ambienti di un establishment che temeva solo di vedere messe a rischio le posizioni conquistate e le possibilità di sfruttare a proprio quasi esclusivo vantaggio una fase di grande sviluppo.
La raccolta di documenti che Mimmo Franzinelli e Alessandro Giacone hanno prodotto per inquadrare la fase delicata di avvio del centro-sinistra è un contributo di grande interesse per capire su quali secche si arenò quella che, a mio giudizio, fu una "rivoluzione degli intellettuali" maturata fra metà anni Cinquanta e primi anni Sessanta. Il riformismo italiano maturato dalle giovani generazioni delle forze cattoliche, laiche e socialiste, non trovò una classe politica in grado di forzare davvero l'egemonia dei diversi conservatorismi che si radicavano nelle varie subculture italiane (tanto di destra come di sinistra). Moro emerge da questa lettura di documenti davvero come figura tragica nella sua apparente enigmaticità. Non c'è infatti alcun vento riformatore che possa smuovere le acque del sistema italiano: nella Dc, nei laici, nel Pci, nei liberali, nel mondo economico come nella Chiesa, è tutto un intrecciarsi di personaggi in lotta fra loro, ciascuno coi suoi addentellati in un sistema di gestione del potere che in fondo guarda ancora con sospetto i parvenu del maggiore partito legittimati solo dal consenso elettorale.
I due curatori, che hanno premesso alla raccolta di testi un ampio saggio introduttivo, hanno ragione a smentire la vulgata di un incagliarsi della situazione per un presunto colpo di Stato orchestrato dal generale De Lorenzo. Non vi è traccia di un vero pericolo in quella direzione, mentre vi è ampia traccia di un lavorio continuo da parte di molti vertici, a cominciare da un ottuso Antonio Segni che Moro favorì nella scalata alla presidenza della Repubblica, per impedire che l'avvio di riforme mettesse a rischio l'equilibrio raggiunto. Concorsero ovviamente alcuni furori riformatori come quelli di Riccardo Lombardi, ma a leggere queste carte non si può fare a meno di essere colpiti dalla silenziosa abilità di Moro che alla fine riesce a impedire la precoce sepoltura della nuova formula politica.
Sepoltura che si tenterà con la proposta, poi naufragata, di un "governo tecnico" affidato al presidente del Senato Merzagora che in un appunto di inizio luglio 1964 (pag. 480) propone di tagliare i costi dei partiti, ristrutturare la previdenza sociale, rivedere la Costituzione, realizzare tagli al bilancio dello Stato. Rileggerlo oggi fa una certa impressione, così come la fa il constatare che per venire a capo del groviglio di resistenze, complice la paura per una sfavorevole "congiuntura" economica (sfruttata dal duo Carli-Colombo), si decidesse di passare una versione del centro sinistra di basso profilo. Una scelta senz'altro fatta in attesa di maturazioni ulteriori, che però non vennero mai.

Paolo Pombeni
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-04-28/aldo-moro-riformista-tragico-081932.shtml?uuid=Ab7uPBrH

mercoledì 10 aprile 2013

Una verità a puntate ...


 Alessandro Forlani, giornalista di Radio Rai pubblica "La zona franca" in cui ricostruisce il rapimento e l'uccisione dello statista democristiano.
La versione ufficiale racconta che Aldo Moro viene rapito il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse e che lo Stato rifiuta ogni tipo di trattativa con i rapitori. La conseguenza: l’ostaggio viene ucciso il 9 maggio consegnando alle cronache una delle pagine più drammatiche della storia repubblicana del nostro Paese. Nel corso degli anni però – in contrasto con questa ricostruzione dei fatti – si sono rincorse le voci su un’altra trattativa politica e segreta, fallita in extremis. Per la prima volta attraverso il libro di Forlani alcuni testimoni diretti, molto vicini alla vicenda, raccontano che il 9 maggio del 1978 lo statista democristiano doveva essere liberato, a seguito di un accordo. La Santa Sede, infatti, stava per consegnare ai brigatisti un riscatto di 25 miliardi di vecchie lire. Contestualmente, la Dc stava per esprimersi a favore di una trattativa umanitaria mentre il Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, si apprestava a firmare un provvedimento di clemenza nei confronti di un terrorista in carcere.



http://www.primadanoi.it/video/538929/ALDO-MORO---LA-SANTA.html

Aldo Moro, una nuova teoria sulle sue ultime ore